(14 luglio 1900)
La disgrazia di Venaccorvo
Due annegati in uno stagno

       In prossimità del ponte di Venaccorvo sulla strada che da Teramo porta ad Ascoli e precisamente sotto la località chiamata Villa Rupo distante da Teramo un tre chilometri e mezzo circa, si stende a destra della via un fosso abbastanza alto in fondo al quale scorre un rivo.
       In quel punto, tre o quattro anni or sono dalla collina sovrastante cadde una frana che ostruì il corso del rivo, in modo che l'acqua ivi raccogliendosi a poco a poco formò uno stagno, che raggiunge ora i cento metri di larghezza e i trecento di lunghezza.
       In quello stagno, sopravvenuto l'estate, parecchi si recavano a prendere i bagni; ma si avvertiva da tutti essere pericoloso il bagnarsi in quel punto, perché appena a pochi passi dalle rive molto scoscese non si tocca più fondo, e qualche nuotatore ha osservato che la profondità dell'acqua varia dai dieci ai venti metri e forse anche più. Il fondo è ineguale e frastagliato, e pieno di melma, di sterpi, di alghe.
       Mercoledì scorso quattro giovanotti ventenni, Scaccaglia Oreste, Campana Tommaso, Bernardi Vincenzo, e Romani Giovanni, si recarono lassù col triste desiderio del bagno, verso le ore 15. Il Romani, non sapendo nuotare, volle restare sulla riva, gli altri tre spogliatisi dei panni si gettarono in acqua. Il Bernardi e il Campana riuscirono a toccare nuotando la riva opposta ma lo Scaccaglia, meno esperto di loro, come si ritrovò nel mezzo, non ebbe più abilità di mantenersi a galla, e cominciò a bere acqua, dimenandosi e agitando le braccia. Accortosi di ciò il Romani, gridò agli altri due di correre in aiuto dello Scaccaglia. Ambedue i compagni credettero sul principio che lo Scaccaglia scherzasse, ma quando si avvidero che stava pur troppo per annegare, lo afferrarono per trarlo a salvamento. Allora avvenne un fatto orribile, ma solito sventuratamente in simili casi. Lo Scaccaglia, negli estremi sforzi per salvarsi, si avvinghiò al Campana, che non ebbe così più liberi i movimenti; una lotta suprema e disperata s'impegnò fra i due; essi scomparivano e ricomparivano allacciati; finché l'acqua non li ingoiò ed essi non furono più visti. Il Bernardi, dopo essere stato afferrato per un piede, riuscì fortunatamente a scampare; e il Romani dalla riva dové assistere esterreffatto alla scena, senza poter dare un aiuto.
       I due rimasti si misero a gridare al soccorso, chiamando i contadini del vicinato; ma qual mezzo di soccorso era pronto e adatto in quel luogo? Fu spedito tosto di corsa un contadino a Teramo, per avvertire la Pubblica Sicurezza.
       La notizia dell'accaduto si sparse in un baleno per tutta la città, portatavi dal sig. Antonio Urbani che si era trovato a passare in quei pressi in bicicletta. Immediatamente il delegato Mazzoni si recò sul luogo; e nello stesso tempo vi correvano molti cittadini in carrozze e in biciclette. Il municipio mandava delle barelle per trasportare i cadaveri.
       Intanto una vera folla di uomini e di donne del popolo s'avviò in direzione di Venaccorvo. Non si conoscevano ancora bene i nomi degli annegati e parecchie voci giravano nel pubblico, suscitando allarme.
       Sul luogo della disgrazia, lo scultore Pasquale Morganti, che è anche un eccellente nuotatore, giunto tra i primi prontamente si tolse gli abiti e si gettò a nuoto, per rovistare nel fondo e scoprire gli annegati. Seguirono l'esempio di lui il beccaio Battista Morlacchi, e i cittadini Garibaldi Alessandrini ex guardia di finanza, Camillo Pepe ex-soldato nella regia marina, Alberto Rofi, giovane di studio e Alfonso Pennini falegname.
       Ma infruttuose furono tutto le ricerche. Il Morganti e il Morlacchi rimasero nell'acqua per oltre due ore, scrutando per ogni parte; il Morganti, primo ad entrare nello stagno fu ultimo ad uscirne dando prova generosa della sua forza e resistenza note. Si dovette convenire che gli annegati erano rimasti impigliati tra gli sterpi e la melma.
       Il vice pretore Innamorati si portò anche egli lassù per le constatazioni, inutilmente.
       Sul tardi la mesta processione della folla che tornava in città riempiva per la lunghezza lo stradale fuori porta S. Giorgio.
       Giovedì, di nuovo la folla — si può dire tutta la città — si riversò nella giornata per la via a Venaccorvo. Alcuni volonterosi, come lo scultore Morganti e l'operaio Morlacchi, ritentarono la prova nuotando sott'acqua per ritrovare i cadaveri, ma inutilmente.
       Intanto l'ufficio del Genio civile, per ordine del Prefetto, mandava sul posto l'ing. Grandi per vedere se fosse possibile, mediante la pronta scavazione di un canale, di vuotare lo stagno. Ma l'ingegn. Grandi constatava che, data l'ampiezza e la profondità dell'acqua, e la frana altissima che aveva ostruito il fosso, per un lavoro simile sarebbe occorso un mese di lavoro, oltre cento operai e una spesa considerevole. L'ing. Grandi rilevò il disegno dello stagno e misurò il dislivello del terreno, aiutato dall'agrimensore comunale Cavallucci; secondo i calcoli fatti l'acqua nel punto più profondo raggiungerebbe i 25 metri!
       Nel pomeriggio fu preparata una zattera, con funi e con pali lunghissimi, muniti di grampi, per esplorare nel fondo. Tutta la notte alcuni rimasero sul posto.
       Ieri mattina si sparse la voce che finalmente i due cadaveri erano stati rinvenuti. Infatti quegli egregi giovani rimasti sul posto, anche durante la notte avevano indefessamente lavorato.
       Poco prima mezzogiorno fu rinvenuto il cadavere di Oreste Scaccaglia: sembrava che dormisse, tanto eransi conservate le sembianze del viso; ed era in atteggiamento di chi volesse stringersi, aggrapparsi a qualche cosa.
       Il lavoro febbrile, intenso di Morganti, Morlacchi, Pennini, continuò per parecchie ore alla ricerca del cadavere di Tommaso Campana, e già, verso le 16 e mezza gli animosi giovani pensavano di smettere e avvicinavano la zattera alla riva, quando il canapo, che serviva per muovere la zattera, portò a galla il cadavere del Campana. Immediatamente tornarono in acqua Morlacchi ed i compagni, ed anche il cadavere del Campana era deposto sulla riva, accanto a quello dello Scaccaglia, ambedue coverti da lenzuola.
       In questo momento giunse sul posto il Pretore, sig. Paolini, per le constatazioni di legge, accompagnato dal dott. De Nigris, ed ordinò l'inumazione dei cadaveri dei poveri giovani.
       La folla, sul posto, era immensa, trattenuta da cordoni di truppa.
       Racchiusi in rozze casse i due cadaveri erano riportati a Teramo verso le ore 18, fino al cimitero.

       Oreste Scaccaglia aveva 20 anni. Era figlio del capitano Scaccaglia, del nostro Distretto, che morì l'anno scorso. La madre era anche morta da un pezzo, e un fratello è rinchiuso nel manicomio. Della sventurata famiglia non resta che una sorella di 17 anni, affranta dal dolore.
       Il Campana aveva 21 anno ed era chierico e studente nel seminario. Negli scorsi giorni aveva ottenuta la licenza ginnasiale senza esami. E' morto da coraggioso per aver tentato di salvare il compagno.
       L'impressione di dolore prodotta dalla disgrazia è enorme nella cittadinanza, ed è unanime il compianto per le vittime infelici.
       Il lotto ha voluto la sua parte: si dice che i botteghini abbiano incassato circa 2000 lire.

(29 agosto 1900)
Cronaca nera
Belve umane!

       Un misfatto terribile compievasi in Villa Ripa.
       Domenica a sera tornavano dalla fiera di Ponte a porto (villa presso Frondarola) Barbuti Giovanni, muratore di Piano Grande, Pietrinferni Serafino e Focosi Nicola di Villa Ripa. Lungo la via si dice che un alterco sorgesse tra i tre. Il Barbuti volle rimanere indietro forse per evitare la lite. Giunto a Villa Ripa poco dopo che gli altri due vi erano giunti, costoro, che lo aspettavano, lo provocarono facendogli lo sgambetto. Il Barbuti afferrò il Focosi per il petto mandandolo a terra, ma quasi contemporaneamente il Pietrinferni lo feriva con vari colpi di rasoio. Per l'intromissione di alcune persone la lite fu sospesa e il Barbuti riuscì a fuggire.
       Ma non s'era allontanato di molto che il Focosi e il Pietrinferni Serafino, con l'aiuto anche del padre di costui Pietro, lo raggiunsero tutt'e tre armati chi di rasoio e chi di coltello. Il povero Barbuti impossibilitato a difendersi, rimase crivellato di ferite che produssero quasi subito la morte. Le ferite furono ventuna, e specialmente ne furono colpiti il collo e la faccia, diventata irriconoscibile.
       Il Serafino Pietrinferni diede prova di una ferocia inaudita, raccapricciante. Dopo di avere inferto il colpo, leccava con la lingua l'arma intrisa di sangue, e poi tornava a colpire! Quando s'accorse che l'altro esalava l'ultimo respiro, si allontanò scagliandogli delle pietre e dicendo in aria di scherno: Giovanni, dormi o sei morto?
       Quindi, tornato a casa, prendeva un organetto e girava suonando per le vie di Villa Ripa e gridando: la vittoria è nostra!
       Poi i tre malfattori fuggirono. Lunedì mattina i carabinieri scovarono il Serafino Pietrinferni a Villa S. Felice (distante due ore e mezza da Villa Ripa). La popolazione di questa villa era esasperata e voleva linciare quella belva, tanto che i carabinieri dovettero innastare le baionette.
       Gli altri due, sapendo che erano ricercati, si costituivano spontaneamente.
       Lunedì si recò sul luogo il giudice istruttore Genova con i dottori Pieranunzi e De Nigris per l'autopsia cadaverica.
       Furono anche raccolte immediatamente le prove.
      



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