(Seconda Parte)

I complici di Acciarito
La grande giornata

       Segue l'esame dei testimoni a carico

       Udienza del 24 marzo — Prima dell'udienza il Presidente cav. Rulli chiama il corrispondente dell' «Avanti» Diodato De Sanctis, e gli ritira la tessera per il banco della stampa in seguito a un violento articolo di quel giornale e una vivace lettera del direttore Bissolati al Presidente, per alcune osservazioni che questi fece, secondo il corrispondente, nel rilasciargli la tessera, per intercessione dei colleghi, mentre prima l'aveva negata.
       E però opinione generale che il Presidente non abbia pronunciate le parole che gli attribuisce l'«Avanti».
       Mele Amico, è un impiegato del «Messaggero». È stato coinquilino di Gudini per circa 12 anni e lo dichiara estraneo a partiti sovversivi.
       Erzanelli Silvio. Nella sua bottega di tappezziere lavorava il Gudini, che non ha mai fatto parte dì società anarchiche. Nei 15 giorni prima dell'attentato lavorava a intervalli e il teste ricorda d'averlo pagato tre o quattro giorni prima del fatto.
       P. M. — Essendovi contradizione tra quello che il teste disse dinanzi al giudice istr. e quello che dice ora, prego il Presidente di rileggergli la precedente deposizione, perché in caso il teste insista, io possa fare le mie richieste.
       Avv. Zerbinati — Giustizia vuole che si ascolti l'ultima prova orale del cittadino chiamato come testimone: lo si faccia prima deporre ed aspetti il P. M. a fare delle minacce che lasciano il tempo che trovano. Il teste conferma la deposizione orale, che il Presidente fa inserire al verbale.
       Furolo Giovacchino, delegato di P. S. Fu incaricato di fare indagini sull'esistenza del complotto. Seppe dal questore che dalle interrogazioni fatte a Gudini ed a Collabona era risultato che essi furono con Acciarito negli ultimi momenti del fatto. Diresse quindi le prime indagini contro Gudini e gli risultarono le circostanze già note; il suo arrivo infangato e sporco nella sala Morriconi, la frequenza con cui egli recavasi insieme ad Acciarito e Diotallevi, nell'osteria Valerii. Circa il Collabona seppe che era stato sempre in bottega di Acciarito, che lo aveva assistito nella vendita dei ferri di mestiere e che s'era intrattenuto con lui il giorno dell'attentato. Ebbe incarico di fare indagini su Diotallevi, quando Acciarito disse alla Venarubba, che erasi recata a trovarlo in carcere: Dite a quel Dio Divino che andasse a fare il chierichetto a S. Giovanni. Il sospetto cadde su Diotallevi, ritenuto anarchico. Dal ragazzo di bottega Acciarito, Eugenio Bertuccioli, cui si regalarono cinque lire per farlo parlare, seppe che sul piazzale della Stazione, il giorno dell'attentato, aveva visto insieme Gudini, Collabona, Acciarito ed uno sconosciuto e che aveva visto anche Cherubino Trenta traversare la strada. Da Pasqua Venarubba seppe che Acciarito era intimo di Diotallevi e del Ceccarelli, del quale ultimo riteneva indispensabile il consiglio e l'assistenza. Si rafforzò nell'idea che gli odierni imputati avessero istigato Pietro Acciarito a compiere l'attentato.
       Dichiara poi che incaricato dal Comm. Caprino, dopo le rivelazioni fatte da Acciarito nell'ergastolo, di assicurarsi sulla possibile complicità di Pietro Calcagno, ebbe a convincersi della innocenza di costui, poiché fin dal febbraio del 1897 fu arrestato e confinato a Fontanelle Po. Gli s'indicò anche il Ciotti come eccitatore di Acciarito, ma egli lo ritenne estraneo al complotto.
       Si leggono quindi vari verbali redatti dal delegato.
       Morriconi Antonio — E' il padrone della sala da ballo in via Machiavelli. Ricorda che Gudini si recò nel suo circolo il giorno dell'attentato, circa le due e mezza, non però infangato e sporco: in tali condizioni non lo avrebbe ammesso.
       Ferri Giovanni — È una teste che vuol mettere a prova i polmoni del Presidente, la pazienza degli avvocati e dei giurati ed anche la nostra. Apprese da Pasqua Venarubba che voleva scrivere una lettera a Pietro, perché confessasse i complici: così gli avrebbero dato poca pena. Afferma di aver sentito, dopo l'attentato, il discorso di un gruppo di anarchici. Dicevano: Quel minchione non è stato buono a dare il colpo: è stato coraggioso, ma non ha fatto niente. Un altro aggiungeva: quel che mi sta sullo stomaco è quell'asino dì Rudinì: bisognerebbe levargli la vita.
       L'avv. Albano fa conoscere ai giurati che la teste è pazza, giusta deporranno i suoi padroni.
       Sono poi sentite le due guardie carcerarie di Regina Coeli, Insero Salvatore e Pagni Tersilio, che ebbero l'incarico di presenziare il colloquio tra Acciarito, il fratello e la Pasqua. Sentirono dire da Pietro: Fate sapere a Dio Divino che vada a fare il chierichetto a S. Giovanni e poi l'altra frase: Se succede qualche buriana, io sortirò per primo.
       Silioni Oliva — Ha conosciuto Pasqua. Ha visto una sola volta assieme Acciarito e Diotallevi. Con quest'ultimo è stato più volte a mangiare in osteria e dallo stesso ha ricevuto qualche lettera dalla Grecia, quando vi si recò colla spedizione Berthet.
       Costantini Vincenzo — Era cameriere dell'osteria sita a circa 200 metri dal posto in cui avvenne l'attentato. Ricorda che in quella mattina del 22 aprile, due persone andarono ad offrirsi per camerieri nell'albergo e che quando vide Acciarito arrestato, riconobbe in lui uno dei due, a meno soggiunge che non vi sia un'altra persona identica. Il maggio ebbe un biglietto anonimo, scritto in lapis, in cui si diceva che persistendo a dare informazioni sul fatto, gli avrebbero tolta la pelle. Lo consegnò ai Carabinieri.
       Bertuccioli Eugenio, il ragazzo che serviva in bottega di Acciarito, ha visto spesso venire a discorrere col padrone Gudini e Diotallevi. Non conosce Ceccarelli. La mattina del 21 andò a colazione con Acciarito e Collabona nell'osteria Marinelli. Gli si diede una lira e gli si promise che gli avrebbero cercato padrone. Allo scopo si sarebbe dovuto recare il 22 a mattina in Piazza dei Cinquecento. Vi andò e trovò Acciarito con altri tre, Collabona, Gudini ed uno sconosciuto. Vide Cherubino Trenta che andava verso il colonnato della stazione. Poi li perdette di vista. A richiesta dell'avv. Albano, il ragazzo risponde che in questura ebbe da una guardia due frustate, perché facesse la deposizione.
       Cavaceppi Attilio, detenuto per corruzione testimoni, indossa l'abito del recluso: porta il N. 1779. Fu chiamato dal Giudice Istr., al quale disse di non saper niente per non trovarsi in impicci. Ora, in seguito all'ammonizione del Presidente, non ha difficoltà di parlare (gli avvocati ritengono per i salutari effetti di una lezione carceraria). Da una certa Pascucci e da suo fratello Davide avrebbe saputo che in sala Morriconi si sarebbe detto: stasera sentirete che botto. Egli non sa se fu il Gudini che pronunziò tali parole.
       Si dovrebbe sentire l'altro delegato di P. S., Barili Ettore, ma, data l'ora tarda, il suo interrogatorio viene rinviato a martedì.


       Udienza del 27 marzo.
       Nell'attesa


       Nei due giorni di riposo dopo l'udienza del giorno 24, sapendosi che oggi dovrà fare la sua deposizione Pietro Acciarito, non si è parlato di altro in città e le richieste e le raccomandazioni per poter assistere alla seduta odierna sono state infinite.
       Fin dalle nove del mattino, per l'androne, le scalinate, i corridoi del palazzo di giustizia era una folla irrequieta; alle dieci già un numeroso gruppo di signore faceva ressa alla porta della tribuna riserbata; e man mano che l'ora dell'apertura dell'udienza si avvicinava la folla cresceva, cresceva.
       Quando, alle undici e un quarto, finalmente sono state aperte le porte dell'aula, così lo spazio per il pubblico come la tribuna si sono gremiti in un batter d'occhio, e il gentile presidente cav. Rulli ha dovuto permettere che molte signore prendessero posto in uno dei banchi destinati ai testimoni e presso i seggi dei magistrati.
       Fuori, intanto, tenuta a stento dietro i cancelli da guardie e carabinieri, altra folla ha continuato ad agglomerarsi. Nessun incidente o disordine, grazie all'energia dell'ispettore Aliney e del Capitano dei carabinieri Bernasconi, che avevano a disposizione un contingente enorme di forza.
       La corte entra alle undici e mezza. I banchi della difesa e della stampa sono al completo. L'aula presenta un aspetto imponente; e le toilettes primaverili delle signore danno la nota gaia.
       Mentre si fanno le ammonizioni ai testi citati per oggi, sappiamo che è giunto, ed è stato chiuso in un'apposita camera di sicurezza, Pietro Acciarito. E' inutile dire che è stato trasportato con le più grandi precauzioni, e si son fatti sgombrare completamente i corridoi e la scalinata, mentre l'Acciarito, incatenato, saliva fra i carabinieri.


       Pietro Acciarito

       Il Presidente ordina che sia introdotto Pietro Acciarito. (Movimento enorme di curiosità; molte signore, per vedere meglio, si levano in piedi; il presidente è costretto a scampanellare).
       Acciarito entra fra cinque carabinieri, gli vengono tolte le manette, e i carabinieri rimangono in piedi accanto a lui.
       E' nel suo triste costume di ergastolano e porta il numero 378. Ha un viso abbastanza indifferente ed è ben pasciuto. Il Presidente, dopo avergli domandato le generalità, gli fa le avvertenze di rito.
       Acciarito risponde: Quest'avvertenza va a tutti, perché chiunque qui non dica la verità, fosse anche il padre eterno, deve essere arrestato.
       L'avv. Ranzi fa istanza perché Acciarito, essendo correo e denunciante con proprio interesse, ai termini della proceduta penale, venga inteso senza giuramento.
       Il P. M. risponde opponendosi, perché Acciarito dopo il fatto che ebbe a commettere contro il nostro amato sovrano....
       Acciarito, scattando: Per causa delle infamissime oppressioni.
       P. M., continuando, svolge le ragioni per le quali secondo lui, l'Acciarito deve considerarsi come un indicatore di notizie non come un accusatore o un complice: egli è un semplice testimone e deve giurare.
       Mentre il P. M. parla Acciarito si commuove e porta il fazzoletto agli occhi.
       L'avv. Albano ribatte con calore gli argomenti del sostituto procuratore generale, e spiega che Acciarito fu il correo principale nel fatto sul quale oggi deve deporre. Per quali ragioni di moralità e di giustizia, egli deve dunque essere inteso con giuramento? Insiste nell'incidente.
       La Corte respinge l'incidente sollevato dalla difesa, perché non può chiamarsi più coimputato chi è stato condannato, e per altre ragioni. La difesa protesta. Si procede all'esame di Acciarito, che giura.


       La ritrattazione di Acciarito

       Acciarito, parla in piedi, con esaltazione, ad alta voce. Egli dice che fu spinto al delitto dalla mancanza del lavoro e dalle oppressioni, e furon queste le cause di tutti i suoi mali. Volle ribellarsi contro le ingiustizie del mondo, ove chi muore di fame e chi crepa di indigestione. Egli aveva allora lavorato pel Banco di Napoli e non fu pagato. Narra le miserie proprie, della sua famiglia, e di tanta gente mentre ci sono le terre incolte...
       Pres.: Lasciate stare.
       Acciarito: Mi lasci dire, hanno scritto tanti volumi contro di me! Mi decisi a quell'atto perché era necessario insorgere contro la spietata borghesia.
       Il presidente vuol togliergli la parola, Acciarito esclama:
       — Ma dunque sto qui soltanto per far condannare quattro miei compagni? Vuol dire che il governo ha sete di sangue (sic).
       Pres. Ma insomma voi dovete rispondere a questa domanda: se aveste o no complici (attenzione).
       Acciarito: In vista di tante miserie, io discorsi insieme con Ceccarelli e Diotallevi che era necessaria una dimostrazione di azione, non di parole. Ma non possono per questo chiamarsi responsabili.
       In galera, nella cella, io soffrivo acerbamente, e si volle dal Governo, dalla Questura accrescere quelle mie sofferenze; mi fecero recapitare una lettera falsa della mia amante Pasqua, che mi colpì al cuore; autore delle mie rivelazioni, nello spasimo in cui mi trovavo, fu quel vigliacco di Angelelli (il direttore del carcere).
       Angelelli nel suo gabinetto a mezzanotte mi dettò l'istanza di grazia al Re, che io scrissi sotto il peso dei miei dolori, mentre ero fuori di me, e in quella istanza egli mi fece indicare i miei compagni assicurandomi che non avrebbero avuto molestia. Mandò a prendere anche una bottiglia di Marsala per rianimare lo mie forze, perché ero fuori di me.
       Mi avevano messo accanto Petitto, che fu indotto anche lui a scrivere ciò che io non avevo mai sognato, facendomi incolpare persone innocenti. Dovranno venire a dare qui le spiegazioni il direttore, Petitto, gli altri, perfino il cappellano! Se io scrissi fu perché non sapevo se ero più vivo o morto! Quante cose ho sofferto, mi hanno anche minacciato di tortura!
       (L'impressione che le dichiarazioni di Acciarito producono è intensa; gli accusati piangono.)
       Acciarito continua dando spiegazione delle sue relazioni con i singoli accusati e dichiarando che ogni circostanza che da lui sia stata scritta o deposta a carico loro gli fu imposta dal direttore Angelelli. Non ricorda se il Gudini lo accompagnò a ricercare il pugnale fuori porta Furba, ove l'aveva nascosto dietro la marrana, ma il Gudini, che era un ragazzo, non poteva sapere a che scopo servisse. Si lasciarono a una bella distanza dal luogo dell'attentato e si salutarono come di consueto: non è vero, ed è una invenzione dell'Angelelli, che il Gudini gli avesse detto: se non riesci bevo mezzo litro, se riesci ne bevo uno.
       Quanto al Collabona, Acciarito dice che dell'attentato non ne sapeva proprio nulla, ma può darsi che qualche volta il Collabona lo avesse inteso dire che voleva uccidere il Re. Andarono insieme a vendere i ferri della bottega, e ammette che abbia potuto dirgli che voleva andare in America. Esclude che nel separarsi dal Collabona questi gli avesse raccomandato di stare attento!
       Quanto a Ceccarelli e Diotallevi, Acciarito depone: Essi sapevano il mio intento, ma la decisione fu soltanto mia. Non mi approvarono né mi sconsigliarono. Che importava a loro? Non è vero però che mi avessero rimproverato perché non ero sollecito a mettere in opera il mio proposito.
       Acciarito esclama: Ciò che mi fecero scrivere contro Ceccarelli e Diotallevi è falso. Angelelli, il segretario, il capo guardia, e l'ergastolano Petitto, mi indussero a scrivere all'una dopo mezzanotte e fecero cose che farebbero raccapricciare i sassi. Non è vero che quei due si sarebbero dovuti trovare in una carrozza sul posto dell'avvenimento per cooperare a salvarmi con la fuga. Quando commisi l'attentato sapevo di essere solo, e mandai, dopo, a dire al Diotallevi che era un chierichetto, perché se erano veramente anarchici avrebbero dovuto darmi un aiuto. Ma nulla fra noi era convenuto intorno all'attentato: essi non sapevano neanche quando e come si sarebbe fatto, io fui solo.
       L'impressione profonda di quanti assistono all'udienza è facile immaginarla, dopo la ritrattazione di Acciarito.
       Il P. M. fa notare che nel giugno, quando depose dinanzi alle Assise di Roma, il teste chiamò l'Angelelli padre affettuoso e spiegò di avere scritta di propria iniziativa l'istanza di grazia.
       Gli avvocati Albano e Brenna fanno notare che in giugno l'Angelelli teneva ancora sotto la sua custodia Acciarito nel carcere di santo Stefano e soleva tenerlo di notte lunghe ore nell'ufficio dimostrandosi affettuoso per lui: fu in quello stesso ufficio che il direttore mostrò ad Acciarito la falsa lettera di Pasqua Venarubba, che gli annunziava di essere madre. In quella notte terribile, Acciarito si decise a fare delle rivelazioni, destandosi in lui il sentimento della paternità e acuendosi la speranza della grazia reale.
       Acciarito conferma.
       Si sospende la seduta per pochi minuti, quindi si riprende per continuare a fare delle contestazioni e delle domande ad Acciarito.
       Si leggono le istanze da questi dirette al Re e al Ministro di Grazia e Giustizia. A domanda dell'avv. Positano, Acciarito risponde che il Petitto voleva fargli credere di aver nascoste in un'isola 700 mila lire, delle quali Acciarito, ottenendo la grazia e la libertà, avrebbe potuto appropriarsi, ma egli non ci credette. Gli mostrò delle false lettore di anarchici por far credere che egli era in relazione con essi, e gli dette anche assicurazione che sarebbe stato impiegato a Casa Reale. Ma l'assicurazione della libertà gli era data specialmente dal direttore Angelelli, che diceva di voler deporre con le sue mani l'istanza al piedi del trono.
       — Invece del trono, osserva Acciarito, l'ha portata ai piedi del questore (grande ilarità).
       (Benché condannato all'ergastolo, Acciarito, nella sua esaltazione, non manca di far dello spirito!)
       Aggiunge: Io speravo fermamente nella grazia, perché° avevo fede nel perdono di Sua Maestà.
       L'udienza si toglie alle ore 18.

       Oggi, seduta non meno importante ed emozionante essendovi il confronto tra Acciarito e il direttore Angelelli.

(Terza Parte)



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