I teramani nella Grande Guerra.
Il conflitto raccontato nelle pagine del Corriere Abruzzese
Anno 1915


SALUTO ITALICO

           Non più Bronzetti «fantasma erto fra i nuvoli» grida: «Quando?»; nè più
           «Quando?» i vecchi fra sè mesti ripetono
           che un dì con nere chiome l'addio, Trento, ti dissero;

           nè
           «Quando?» fremono i giovani che videro
           pur ieri da San Giusto ridere glauco l'Adria.

           Italia ha ripreso il cammino segnatole dai suoi fati; e di su le balze del Trentino i fucili dei suoi eserciti e il rombo dei suoi cannoni suscitano gli echi profondi de le convalli in una diana di vittoria.
           Odono i morti di Bezzecca; e nel risveglio, dopo il lungo sonno che parea l'eterno oblio, gridano: «è l'ora; è questa l'ora che noi sognammo col sacrificio nostro. Avanti, o schiere d'Italia: Dante attende a Trento e canta per voi il carme divino della vittoria.
           E da Grado, che cullò la gloria immortale di Venezia, sorride il tricolore
           al bel mare di Trieste, a i poggi, a gli animi.
           Avanti, o baldi soldati d'Italia.
           A Schonbrum, sommersa nel sangue vermiglio di giovinezze innumeri spezzate, precipita la fortuna degli Asburgo: il vecchio imperatore, cui il destino serbò più lunga vita per più lungamente espiare, guarda con l'inaridita e semispenta pupilla, nella quale par che balenino i segni non dubbii della non lontana demenza, guarda tanta rovina. Invano al tragico fantasma di Radestzki e alle memorie di Novara e di Custoza egli ha chiesto conforto ed aiuto: sulla piaga aperta dell'odio nostro cadono come vetriolo le disperate invocazioni imperiali. Per quei ricordi, se è possibile, noi odiamo di più.
           Zita di Borbone, la nata della Versilia, vede vanire in questo tramonto sanguinoso il suo sogno d'imperatrice. Forse sul capo biondo, sul quale pare che s'indugi un raggio del bel sole italico, che le badò la fronte giovinetta, allor «che improvvida d'un avvenir malfido, lieti pensier virginei solo pingea», non poserà la corona imperiale.
           E forse l'anima sua, tutta presa della nostalgia del gran sogno vanito, avrà un fremito che non sarà d'amarezza: non essa, nata sul bel suolo d'Italia, sarà l'imperatrice degli irredenti impiccati, paurosa regina «degli italici moti e degli slavi».
           Avanti, o baldi soldati! Coi lauri educati tra i perenni laureti di Quarto, le fanciulle di Trieste intreccian corone per il vostro eroismo.
           Dall'Eliseo, un'altra donna, Bianca Poincarrè, pur nata d'Italia, sul cui labbro canta il dolce idioma di Dante, sorride a le irrompenti, trionfanti schiere, che il Genio latino guida. Sorride e mormora: «Italia e Francia! oggi e sempre avvinte: nell'agonia della battaglia, e nel grido gagliardo e possente dell'immancabile vittoria. Oggi, e sempre!»
           O madri, o spose, o sorelle, che tutto voi date coi figli, coi mariti, coi fratelli alla gran Madre Italia, a voi salga in ogni ora la benedizione d'un popolo, che soffre ed attende.
           Altre madri, altre spose, altre sorelle v'invocano, ed invocano il braccio ed il cuore sicuri d'Italia. Non udite passar
           come un sospiro su il Garda argenteo
           il pianto d'Aquileia su per le solitudini?

           V'invocano e vi benedicono, esse che tutti i martirii conobbero d'un selvaggio odio e d'una tirannide crudele.
           Sotto la terra nuda, a Trieste, in un solco obliato, su cui s'addensò la squallida notte che non ebbe rugiade, è sepolto un cuore spezzato, che attende l'ora vendicatrice dal destino segnata.
           È il cuore d'una madre, che nel lungo tempo sanguina sempre; è un cuore che seppe tutte le angoscie e tutti i martirii: è il cuore di Giuseppina Oberdan.
           O madri d'Italia, movete in pio pellegrinaggio, e date a quel cuore spezzato i fiori più puri e più generosi del vostro sentimento.
           Ella, la madre di Guglielmo Oberdan, il nato nel confidente abbandono d'un sogno d'amore e per un sogno d'amore ucciso, ella pel suo martirio v'invoca e vi benedice, o memori, o forti, o generose madri italiane. Udite; squilla la campana del Campidoglio.
           È la voce di Roma, è la gran voce della Patria, che, confusa la tracotanza teutonica, annunzia al mondo aspettante, giustizia e libertà. Muove incontro ai soldati d'Italia, cui Roma antica dona i suoi fausti presagi, muove e s'avanza la vittoria cinta di lauri.
           O balde schiere, avanti:
           in faccia a lo stranier, che armato accampasi
           su'l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia.

           FRANCESCO TAMBURRINI