I teramani nella Grande Guerra.
Il conflitto raccontato nelle pagine del Corriere Abruzzese
Anno 1915


I pennesi alla guerra

           I morti: Michele Camplese, Eduardo De Leone, Camillo Ferri - Lettere di soldati - L'amor di Patria superiore a quello paterno - Un soldato che non potrà più ballare - «Povero me?!.. Poveri austriaci !..» - Il migliore elogio funebre: «morti per la Patria!».
           
           Quasi non si sapeva che fosse la patria: la guerra ce l'ha insegnato o ricordato. E tre nomi di cittadini pennesi, morti sulle terre tanto e invano contese al buon dritto d'Italia, ci hanno accresciuto via via il senso del dolore e quello del dovere. É caduto prima un giovine del contado: MICHELE CAMPLESE, e poi, successivamente, EDUARDO DE LEONE e CAMILLO FERRI. La morte di questo à commosso di più l'animo di tutti, perché l'estinto ha lasciato anche due teneri figliuoletti. S'è così elevato, col concetto di sacrifizio, quello di patria: non perché non sapessimo quanti casi somiglianti e più gravi produce la guerra, ma perché il caso che riguarda persone care per unità di paese natio, per relazione affettuosa, commuove di più e ridà la fisionomia tragica della guerra a chi l'avesse per un momento obliata, e ridesta in tutta la sua potenza quella della patria.
           Il concetto di essa vedo ogni giorno farsi più forte e vivo nell'animo dei giovani pennesi, che hanno combattuto or l'una or l'altra battaglia e ad altre si preparano. Nessun segno di rettorica nelle loro parole; ma una calma fiduciosa, un entusiasmo altero, una speranza immancabile. E fan meraviglia: giovani buoni, di mediocrissimo sapere, di affetti gentili, intesi a pietà, non li avremmo tutti creduti abili a sostenere così aspre fatiche, forti nel riguardare con tanta serenità di animo l'avvenire; il che è quanto dire: conoscere ed apprezzare la vita.
           Se ora ci si manifestano diversi; se una ferita d'un loro compagno, se la morte di un loro concittadino li esalta o li esaspera, sino a farne degli uomini d'un sol volere, degli animi vindici, gli è che la guerra, il dovere della guerra, ha foggiato gli uomini nuovi.
           Leggo la cartolina scritta dal caro giovine Marino Piersante e da altri a un mio fratello: «Dai gloriosi campi delle sacre battaglie italiane un gruppo di artiglieri da montagna abruzzesi, mentre si avanzano con l'ebbrezza della vittoria, mandano i più calorosi saluti a lei e a tutti del Comitato per l'assistenza civile».
           Trascrivo, rettificandone solo la forma, alcuni periodi di una lettera dell'operaio Alberto Ruggieri alla madre: «Mamma cara, non impensierirti... al contrario, nel tuo cuore deve regnare la più bella e più nobile gioia perché puoi vantarti, diciamo così con parola dialettale, che hai due giovani forti e coraggiosi i quali, daranno, se è possibile, la vita per la nuova Italia, che per noi ora domina la madre, anzi per ogni italiano...»
           La mamma, nel sentir leggere la lettera, aggiungeva, con le lagrime agli occhi: «Mio figlio ha frequentato la seconda elementare!»
           Come non sentirsi commossi da queste manifestazioni di patriottismo? Come dubitare di una elevazione di spiriti prodotta dalla guerra? Tuttavia, non esageriamo: le nostre madri, in generale, non comprendono la necessità della nostra guerra e che sia la patria. Ma quando lo stesso figliuolo, dopo le fatiche e l'aspro cimento, scrive alla propria mamma: «Noi ora non pensiamo ad altro che ai giuochi e al passatempi; noi siamo inconsci del dolore», è come le dicesse: «Io amo te, ma il mio più grande amore antico e nuovo è la patria». C'è nell'espressione un insieme di affetti inespressi, di rassegnazione, di coraggio, di disprezzo della vita immolata al dovere, di sentimenti segreti, che la mamma intuisce e che benedice, piangendo.
           Si possono cogliere, in queste lettere, momenti psicologici diversi, tra quelle che annunziano prossimo un combattimento e quelle che accennano ad una vittoria conseguita con assalti alla baionetta: non mai contrari: e, in fondo, ogni parola, particolarmente rivolta alle madri, è di coraggio, di entusiasmo, di fede.
           Qualche lettore ricorda l'episodio di sovrana gentilezza della Regina Elena in un ospedale di Bologna, a pro di un soldato orribilmente ferito in una guancia. Riguarda un mio compaesano: GIUSEPPE VALERIARI; il quale ha scritto alla madre: «...Non piangere: è stato il mio destino...» Destino sopportato per la patria, con rara fortezza d'animo. «Non piangere»: è come dire: «E se non piangi, di che pianger suoli?»
           Ma sono lagrime buone, che accrescono in tutti il desiderio di vincere presto, sino all'ultimo, la nostra santa guerra e di dare aiuto alle famiglie povere dei combattenti e dei feriti; in vero, ci sentiremmo indegni del nome di uomo e infelici, se, pensando a ciò che essi soffrono per noi, - s'è aggiunto agli altri gravi disagi il freddo intenso - non facessimo di più per loro.
           Altre lagrime, ricordo, ha fatto versare un soldato di qui: il contadino FRANCO GAMBAROTTA, a cui, in Cividale, così prossima alle terre sospirate, è stata amputata una gamba, già forata da una palla nemica. Ebbene, egli ne ha informato la madre con queste parole, che indicano un'invidiabile forza d'animo e mostrano il riso beffardo del figliuolo contro il destino: «Me ne duole, perché non potrò ballare come l'anno scorso, che ballai tanto, di questi giorni...»
           Tali esempi si potrebbero moltiplicare senza fine, insieme a quelli di bontà, di paternità non umana e nazionale soltanto, ma regionale, compaesana; di cui danno prova anche i nostri soldati abruzzesi. Sono raccolti in questa e quella parte della zona di guerra, e nelle ore di riposo, turbato dal rombo dei cannoni, dallo scoppio delle granate, si narrano le proprie vicende, accennano alle loro speranze, parlano delle loro famiglie, di cui sospirano le lettere, come il conforto che loro possa esser dato nella lontananza.
           Di questi sensi gentili sono riboccanti le loro lettere alle famiglie e ad amici comuni; queste ultime non meno gradite e confortatrici delle altre, perché vi si manifesta un sentimento di solidarietà affettuosa, accresciuta dalla comunanza di vita e degli intenti: soprattutto ne godono le madri, che si ritengono sorelle nell'amore e nel sacrifizio.
           In queste lettere un fatto domina sugli altri: l'odio, la ribellione, che gli animi di chi le scrive sentono per gli atti proditorii, onde i nostri nemici son capaci. Il contadino Giovanni Aquilini se ne mostra, nelle lettere, sdegnato sino alle vendette più atroci. La quale volontà di vendette mi ricorda un caso avvenuto qui, di fresco. L'operaio CARMINE LA FRATTA uno dei richiamati della classe 1877, passava per una strada lungo la quale sedevano donne e fanciulle; e una di loro, sapendo ch'era stato richiamato a militare, disse in modo che poteva essere udita: «povero tinaro, deve tornare a fare il soldato....»
           E lui, piantandosi in mezzo alla strada, con voce alta e minacciosa: «Povero me? povero gli austriaci! con queste mani ne debbo fare una trinciata....» ed è partito, ha lasciato la moglie e due dei figlioletti senza versare una lagrima.
           Non rivedranno più i loro cari i giovani da noi compianti: EDMONDO DE LEONE, sottotenente, e CAMILLO FERRI, tenente: due anime buone. Il bravo Edmondo, primo di tre fratelli ufficiali nell'esercito, aveva cominciato, dottore in scienze sociali, la sua nobile vita di studioso insegnando per breve tempo in questa Scuola tecnica; poi, sentendosi forti le penne a più alti voli, fece il concorso di Ragioniere presso il “Credito Italiano” è riuscì con ottimo risultato, avendo prima per sede Napoli indi, ultimamente, Milano. La mamma poteva essere orgogliosa così di lui come degli altri figliuoli: ora, abbrunata, ripensa nella sua muta stanza, il suo dolore e il suo tributo di devozione alla patria.
           CAMILLO FERRI, giovine di sensi delicati, perito-agronomo pregiato, volgeva le sue cure a pro della cara famigliuola crescente e insieme della città, che lo volle, nelle ultime elezioni amministrative, consigliere e poi, per mezzo del Consiglio stesso, assessore comunale. Entrambi, di bella dirittura d'animo: l'uno di gentile altera giovialità l'altro sereno e pensoso insieme; ascoltarono l'appello della patria e fecero, con animo invitto, il loro dovere. Onore a questi prodi! Giusto omaggio fece ad essi la cittadinanza nella passata settimana, ché l'omaggio reso alla loro memoria dal sindaco, dall'Assessore Alfredo Zoccolante, dal consigliere Ottavio D'Angelosante, con parole di commossa simpatia verso il loro compagno di lavoro, e verso il caro giovine EDMONDO DE LEONE fu omaggio reso dalla cittadinanza.
           Del quale tributo di affetto siano eco, in questo giornale, le mie povere note, la cui sola, vera bellezza è qui: nei pensieri che suscitano queste parole «Morti per la patria!» e nella lode, che esse, da ogni ricordanza della loro vita, raccolgono e, come raggi di fede, riflettono fra di noi.
           Giovanni De Caesaris
           
           Nati nell'ossa nostre, ferite, figliuoli, ferite sopra l'eterno barbaro!
           Da' nevai che di sangue tingemmo crosciate, macigni, valanghe, stritolatelo!