I teramani nella Grande Guerra.
Il conflitto raccontato nelle pagine del Corriere Abruzzese
Anno 1915


Come morì sul campo il comandante cav. Manfrin

           Riceviamo:
           Era sull'imbrunire; la pioggia cadeva fina fina, ma gelida e fitta; una nebbia intensa ci impediva di scrutare le posizioni nemiche, il cannone ruggiva incessantemente, mentre le palle sibilavano, miagolavano rabbiosamente.
           Si camminava per un terreno aspro e brullo privo di sorgive e faticosamente il nostro gran duce, il Tenente Colonnello Manfrin, incitava noi soldati, scorati e sfiniti verso la meta. Giunti alla sommità d'aspre alture, moribondi di fatica, ci slanciammo in un assalto furioso, furibondo e fu nostra la vittoria. Il bruno duce allora ci chiese:
           — Quando credete che noi abbiamo avuto la vittoria sui nemici?
           Ed io: — Quando li abbiamo assaliti.
           — No, figliuolo, disse Manfrin Essa fu quando voi sopportaste l'aspro cammino e la sete.
           Infatti nel sacrificio e nell'abnegazione, pensai tra me, ingigantisce la forza dell'anima.
           Appio Claudio, continuò il duce, era inflessibile coi suoi soldati fatti prigionieri; quando gli venivano restituiti, li degradava e li bandiva dal campo comune infino a quando, in una novella battaglia, essi non gli offrissero spoglie di nemici vinti.
           — E Manlio, interloquì il simpatico giovane Cavalieri Filippo, fece decapitare il figlio suo perché aveva combattuto contro suo ordine, dicendo che la disciplina, sostegno dell'impero, gli era più cara della vita di un figlio.
           Non finì di pronunziare l'ultima sillaba che si udì nell'aria un sibilo acutissimo di granata, poi un altro ancora, un'infinità...
           Il nemico iniziava il bombardamento sulle alture ormai nostre. Procurammo coprirci, ma un sibilo più acuto e roboante, lo scoppio infernale d'un trecentocinque ci scosse, ci ammutolì; si sentì qualche grido di dolore e, tra i pochi feriti, ahi sventura! era anche il Manfrin; una scheggia lo aveva colpito gravemente al ginocchio, rendendolo immobile. Lo adagiammo con tutte le precauzioni possibili su d'una barella e, fra la pioggia furibonda dei piombo nemico, lo trasportammo al posto di medicazione avanzato.
           Il distacco tra padre e figli d'armi fu dolorosissimo, si piangeva come bimbi. Il ferito aprì gli occhi a stento, poi li richiuse, mi strinse fortemente la mano, furtive lagrime gl'imperlarono le gote ed appena appena mormorò:
           — Addio, figliuoli, ven...di...catemi!!
           — Non addio, sig. Colonnello, rispose il caporale Antonucci, ma arrivederci!
           Io non piansi ma dentro impietrai.
           Due giorni dopo, mentre si sperava notizie confortanti, mentre da tutti si formulavano voti, s'innalzavano preci per la sua salute, ci veniva comunicata la dolorosa morte.
           E pace, pace a te, o spirito gentile, sempre primo negli esempi, fino dai primi giorni di guerra corresti a dividere i cimenti, i disagi e la gloria dei tuoi soldati d'Abruzzo, sprigionando dai loro cuori colla tua costante presenza quella scintilla che fa di ogni combattente italiano un Orazio Coclite, un Fieramosca, un Pietro Micca. Noi memori sempre di te, dei tuoi saggi consigli, su quell'altura, ove il tuo sangue invermigliò la terra, faremo sacra promessa di essere forti nella santità della causa, fermi nel proposito di ottenere ad ogni costo il trionfo della giustizia, il rispetto dei conculcati diritti delle genti, la redenzione dei fratelli oppressi dallo straniero, Vale!..
           Cap. magg. SACCHETTI MANFREDI, dì Notaresco.