14 novembre 1894

In memoria di Panfilo Gammelli

discorso di Camillo Sagaria
(Seconda parte)

           Il 30 maggio ne la chiesa di S. Agostino parata a lutto ogni cosa era disposta per la funebre commemorazione; mentre che Raimondo Massei e due diaconi celebravano la messa solennemente, giovani animosi distribuivano un violento scritto di Carlo Rusconi, e a dimostrarvi quanto quei giovani fossero animosi basta che io ve ne legga un brano:
           "Il re di Napoli coi suoi atti di una ferocia inaudita ha posto una sbarra eterna fra lui e la nazione. Ai duchi di Modena e di Parma che si collegavano collo straniero per opprimere l'Italia, noi certi di nostre forze, potevamo rispondere col disprezzo; ma come risponderemo all'efferato tiranno, che versa il sangue dei suoi popoli, che rinnova nel bel mezzo del secolo XIX gli orrori del San Bartolomeo, che si tuffa fino agli occhi nella strage e non rifugge da un trono contaminato da tante colpe? Oh l'Italia non ha più che un grido solo per esecrare il despota sciagurato, che, compito il grande eccidio, tronca ora tutte le guarantigie costituzionali, scioglie la civica guardia, pone l'insanguinata sua capitale in istato d'assedio. Re Ferdinando, la misura dei tuoi delitti è colma; il sangue che spargesti s'alza in colonne di vapore fino all'Eterno e ricadrà sulla tua testa: le lagrime delle vedove, dei figli, dei padri, che orbasti dei loro più cari esigono una riparazione, che adempita pienamente non sarà, non pur colla perdita dell'insozzato trono, non pur coll'abbattimento di tutta la tua famiglia, ma pur con un esiglio in cui avrai per compagne le furie anguicrinite del rimorso!..."
           Terminata la messa, Panfilo Gammelli salì sul pulpito e pronunziò la virulenza orazione "facendo" al dire del Michitelli "l'antica, lagrimevole istoria della tirannia e dei mali del regno". Non lenocinio di orazione, ma fascino di animo ispirato dal genio de la libertà ed assurgente a gli splendori di meravigliosa eloquenza strappò il plauso universale. Tessé il Gammelli un esame critico de le vicende de lo Stato napoletano dal 1792 fino al 10 febbraio 1848, mostrò come ogni governo si mantiene saldo fino a che agisce in buona fede, ma che ineluttabile destino vuole che precipiti, quando agisce ne la cattiva: de l'esempio di tante dinastie egli si serviva poi per dimostrare la verità del suo assunto. Parlò con raccapriccio de la giornata del 15 maggio, la quale, mentre disvelava la mala fede di Ferdinando, violava e la costituzione ed ogni legge umanitaria, se umanità poteva aspettarsi da un tiranno. Infine l'oratore non voleva la guerra civile, non voleva eccitare a la strage, ma animato da la fede sincera del Victor Hugo e del Mazzini, chiudeva il suo discorso con queste vibrate parole:
           "...E' noto alla terra ed al cielo ch'ei concesse la costituzione ai napoletani senza ribellanti e sanguinose richieste. La storia d'Italia ha già registrato ne suoi fasti le tante ponderose dichiarazioni sì di lui che de' suoi ministeri, nelle quali si ascrive l'intera gloria della spontaneità del dono. E' un fatto ineluttabile che tutte le province n'ebbero l'inopinato annunzio pria che l'avessero o chiesto o desiato. Sarebbe ora la più invereconda delle slealtà, sarebbe anzi la più detestabile delle fellonie il volerla non dico imputare a crimeniese agli incolpabili suoi sudditi, ma solo ritrattarla.
           Ritrattarla? Oh no, non si ritratta impunemente, anzi senza estremo periglio ciò che venne tribuito ai richiami dell'umanità inoltrati dalla voce dei secoli e sostenuti dall'incivilimento del mondo. Ritrattarla? Ma potrebbe consentirglielo quel Dio, che egli nell'esordio dello Statuto ha chiamato a terribile testimone della purità delle sue mire e della franca lealtà colla quale divisava di entrare nella novella via di ordine politico? Quel Dio, che inesorabile giudice della violazione della fede fa sempre durissimo giudizio ai soprastanti dei popoli? Ritrattarla? No, no, ei nol può, ei nol farà, ma se un incredibile acciecamento lo trascinasse a tanta enormità; oh allora, alzate fidenti le luci all'Altissimo e ditegli: Dio della giustizia, proteggete la causa dei deboli e degli oppressi; colui che sanciva volontario il patto di alleanza e di giustizia co' suoi docili popoli e che invocando il temuto vostro nome ne giurava e faceva giurare l'osservanza, egli medesimo lo ha ora conculcato o distrutto, e voi fedele alle vostre eterne promesse, scagliate le divoratrici vostre folgori sul capo degli spergiuri”.
           Queste coraggiose parole dovevano costare al Gammelli 19 anni di ferri.

* * *

           Dopo la giornata del 30 maggio Teramo rimase in pieno scompiglio: il dualismo fra i liberali e gli ultra-conservatori non poteva partorire che inevitabili discordie, a le quali nessun argine opponevano le autorità, sì che la sera del 15 ottobre, tornando in Teramo da una festa campestre varie comitive di cittadini un po' brilli, accadde un grave disordine. Furono emesse grida di “morte al tiranno, viva l'Italia, viva la libertà”; corsero i soldati ed il maggiore Muti, comandante il presidio, ma furono accolti a fischi e quindi motteggi, insulti da ambo le parti; ne i giorni seguenti le cose giunsero poi a tal punto che per ristabilire l'ordine venne in Teramo il maresciallo Landi forte di molti soldati, e con la sua venuta s'inizia il doloroso periodo de la reazione, che doveva gettare ne l'ambascia tante famiglie, ne le carceri tanti uomini insigni.
           Panfilo Gammelli, non credendosi allora più sicuro in Teramo, si rifugiò a Ripattoni presso la casa Ipppoliti, che era allora focolare di libertà ed asilo dei perseguitati politici. Però avendolo un amico assicurato che nessun pericolo gli sovrastava tornò in città la sera del 27 ottobre. Era a pena arrivato presso le mura di cinta, quando fu perquisito e tratto in arresto, né più egli doveva riacquistare la libertà. Sotto vari pretesti fu ritenuto in carcere per ben 18 mesi a semplice disposizione di Landi, e ciò a punto nel pieno vigore de la costituzione, quando si riconvocavano per la seconda volta le camere nel 13 febbraio 1849, fino al giorno in cui fu accusato: “Di provocazione diretta a distruggere e cambiare il governo, eccitando i sudditi e gli abitanti del regno ad armarsi contro l'autorità reale”.
           Si trattava di punire i promotori de i funerali del 30 maggio '48 e nel grave processo, oltre il Gammelli, furono travolti 15 onesti e liberali cittadini, di cui mi è caro ricordare i nomi: Francesco Marozzi, Giovanni di Michele (1), Luigi Bonolis, Giovanni e Luigi Bucciarelli, Gabriele Forti, Berardo Grue, Pietrantonio Calisti (2), Giuseppe Bucciarelli (3), Carlo Ginaldi, Vincenzo Irelli, Giannicola Michitelli, Pasquale Castelli (4), Ambrogio Zuccarini (5), Luigi Cardelli (6). La sentenza doveva emettersi da la Gran Corte Speciale presieduta da Michele la Mola, l'accusa doveva sostenersi dal Procuratore Generale del Re Francesco Nicoletti.
          

(1) Condannati a 24 anni di ferri.

(2) Condannati a 13 anni di ferri.

(3) Condannato a 6 anni di relegazione.

(4) Condannati a 5 anni di prigionia.

(5) Condannato ad 8 mesi di prigionia.

(6) Rimesso in libertà provvisoria. Ma la vendetta borbonica non fu contenta di queste vittime; altri processi per lo stesso fatto s'istruirono poi contro: Rocco Canerini, Michelangelo Forti, Andrea Costantini, Antonio Tripoti, Giuseppe Cianci, Pasquale de Fabritiis, Raimondo Massei, Valerio Forti, Michele Cavarocchi, Cipriano Petrini, Raffaele Castelli, Carlo, Berardo ed Errico Sbaraglia, Antonio Castelli, Errico Salvatori, Tommaso de Angelis, Nicola Urbani, Antonio Camillotti, Nicola Ercolani, Carlo Campana, Nicola Gabriele, Antonio Michitelli. Debbo queste notizie al sig. M. Cesi, che religiosamente conserva i ricordi di un tempo, di cui egli, giovanetto ancora, era già viva parte.

(Terza Parte)



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