Le onoranze a Tito Acerbo
(16 giugno 1932)

     Il Solco del 16 giugno dedica l'intera prima pagina al ritorno della salma di Tito Acerbo, che dal cimitero di guerra di Musile di Piave, dove morì in battaglia, torna nella terra natale, Loreto Aprutino. Vengono organizzate solenni onoranze per rendere omaggio alla sua salma. Tra gli articoli commemorativi, riportiamo quello a firma di Pasquale Ritucci, che tratteggia la sua gloriosa figura:

     Da Croce di Piave, dove il 16 giugno 1918 compì il sacrificio supremo, e dove l'amore della Madre e del Fratello gli innalzò un monumento, che la venerazione popolare ha di continuo ricoperto di fiori e benedetto di preci, il capitano TITO ACERBO oggi tornerà nel natio loco. Le Associazioni patriottiche d'Abruzzo, le formazioni fasciste, i veterani e i bimbi faranno ala in Loreto Aprutino al passaggio della Salma, e la seguiranno fino al camposanto, in silenzio, quasi in punta di piedi, perchè meglio si avverta il palpito di ognuno per Lui, e meglio si rioda la sua voce.
     Nessun discorso. Chi scrisse la storia col sangue non vuole essere celebrato con le parole. Eppure, tutti amerebbero di parlare di Lui, di invocarlo, di benedirlo. Per tutti, lo appellerà il Ministro della Guerra. E nell'ora che volge il desio, davanti al mare nostro e a padre Gran Sasso protettore, mentre il sole fiammeggerà all'occaso, mille e mille bocche, e mille cuori, e mille petti risponderanno "Presente!"

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     Una larga letteratura ha lumeggiato tutti gli aspetti della vita e del carattere del nostro Eroe. Non metterebbe conto di ripetere che Egli nacque in Loreto Aprutino il 4 marzo 1890, che crebbe nella adorazione dei genitori, nello amore per gli studi, nella pratica austera d'ogni virtù civile, che si addottorò in scienze sociali nel 1914 con il proponimento di darsi alla carriera consolare, e che iniziò subito l'anno di volontariato nell' Esercito rivelandosi vero tipo di soldato. I bagliori d' incendio di quell'estate fatale illuminarono un cuore ed un animo già pronti, ed Egli fu fra i primissimi ad aderire idealmente alla guerra, e fra i primissimi a partire per la frontiera. Intese immantinente che nelle ore supreme segnate dal destino non esistono diritti di singoli e solo la Patria ha tutti i diritti. E a faccia a faccia col proprio dovere, Egli fu subito di esempio agli stessi valorosi. Ufficiale nella Brigata Sassari, dei forti Sardi si elesse amorevole e premurosa guida. Partecipò a tutti i fasti del suo glorioso Reggimento. Fin dai primi mesi della nostra guerra, nell'autunno del '15, compì gesta di valore nel memorabile combattimento delle "Frasche" e dei "Razzi", sul Carso, nel quale Egli si salvò con pochi soldati. Successivamente fu nell'azione dell'Ortigara e in quella della Bainsizza. Qui guadagnò la prima medaglia di argento al valore militare perchè "Comandante di una compagnia con la parola e con l'esempio trascinava i suoi dipendenti alla conquista di una importante posizione, giungendovi tra i primi e facendovi molti prigionieri". La notte di Natale del 1917, col cuore lontano — alla Mamma, al paese nativo, alla chiesa, agli amici — con la nostalgia della fanciullezza tutta piena della Sacra Natività, Egli ebbe spirito e muscoli tesi e pronti nella lotta che salvò Bassano e Vicenza ; e quando fu sferrato il contrattacco per la conquista di Col del Rosso, di Val Pella (gennaio 1918), Egli, alla testa di una colonna di valorosi, giunse primo sul monte, che fu strappato al nemico — disse il comunicato ufficiale — dopo aspre lotte. Una seconda medaglia d'argento premiò quest'altro atto di valore. "Alla testa della sua compagnia, — dice la motivazione — accorreva prontamente sulla linea del fuoco, respingendo un contrattacco nemico e catturando molti prigionieri".
     Nè di ciò fu pago, convinto come era, il forte abruzzese, che il dovere non si compie una volta per sempre, e che la Patria va servita ad ora ad ora, e insino alla fine, insino alla morte. In un altro attacco, accerchiato da forze nemiche superiori, mentre conduceva la propria compagnia, sempre calmo ed intrepido, come dice la motivazione di una terza medaglia, anche questa di argento, Egli fa rifulgere nuovamente il valore suo e dei suoi soldati, e vince ancora. Ma non era tutto. Tito Acerbo sentiva che alla Patria poteva dare altro, doveva dare ancora di entusiasmo, di vigore, di coraggio, di fede. E venne la Battaglia del Piave.
     Al fronte come all'interno, gli Italiani intuirono che quello sarebbe stato l'urto definitivo fra l'Impero Austro-Ungarico e il Regno d'Italia, fra la barbarie e la civiltà, fra il diritto della forza e la forza del diritto. Lo intuirono gli Italiani ma anche gli Imperi Centrali e, allora, perfino gli Alleati. Sembrò a tutti, insomma, che la Nemesi storica avesse segnato quel fiume e quel mese per pronunciare finalmente la sua parola decisiva.
     TITO ACERBO disse allora ai suoi soldati che sul Piave o si salvava l'Italia o si moriva; e il 16 giugno 1918 fece loro giurare di annegare gli austriaci in quei gorghi che la Provvidenza aveva creati lì a difesa di un popolo di liberi e di eguali. Quando l'attacco fu ordinato, Egli marciò avanti, a testa scoperta, col petto e lo sguardo ora in faccia al nemico in segno di sfida, ora in faccia ai suoi uomini per incoraggiarli, spronarli, entusiasmarli. In mano, nè sciabola, né rivoltella, nè pugnale. Egli sapeva che per i suoi non occorrevano minacce. Bastava il suo esempio a renderli leoni. E bastava che Egli indicasse la meta, che la facesse balenare agli occhi della mente e del cuore prima che a quelli del corpo, rosea e bella come un' aurora, promettente e finalmente serena come il cuore di Mamma. Caduto il maggiore appena l'inizio del combattimento, il capitano TITO ACERBO assunse il comando del battaglione. Come doveva essere bello in quell'ora suprema, Egli che aveva gli occhi neri e grandi, e le spalle quadrate, e il petto largo, e il gesto rapido ed energico! I suoi uomini lo seguivano compatti e fedeli, con le baionette in canna, fra grida di morte e di vittoria. Nessuno voleva mancare al giuramento; tutti volevano essere certo non più di Lui, almeno però di Lui degnissimi. Ma mentre la mischia si fa più tremenda e la vittoria altresì sta per spiegare le ali al vento, una palla di mitragliatrice lo colpisce alla gola. Egli si trascina ancora e ancora comanda e incita; ma le forze lo abbandonano, e allora maggiormente vola col pensiero a Mamma sua, e sospira le ultime parole per l'Italia adorata.
     Una superba motivazione, con la quale, alla memoria del prode, fu conferita la medaglia d'oro, in commemorazione della terza medaglia d'argento, suggella tanta eroica giovinezza: "Valoroso fra i valorosi di una gloriosa brigata, animatore impareggiabile, fulgido esempio di bravura, di abnegazione, di fede incrollabile, eccezionalmente dotato di capacità e di slancio, sempre dovunque eroicamente condusse il suo reparto nelle più sanguinose lotte sul Carso, sugli Altipiani e sul Quivi, nella turbinosa battaglia, benché ferito, alla testa dei suoi reparti proseguiva nel violento attacco contro preponderanti forze avversarie; impegnato in una accanitissima mischia, minacciato di accerchiamento, con impeto travolgente, riusciva ad aprirsi un varco, liberandosi dalla stretta morsa e trascinando seco numerosi prigionieri. Poco dopo, colpito a morte dal nemico, incitava ancora i suoi a resistere nella lotta, e spirò sul campo, inneggiando alla Patria".
     Così lo aveva voluto Mamma sua, la sua grande educatrice: austero, forte, sprezzante di ogni pericolo, pronto a tutto osare. E così fu.

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     Dopo quattordici anni, l'Eroe torna fra noi. Troverà il suo paese abbellito e arricchito di tutte le conquiste della modernità, mercé le amorevoli premure del Fratello; troverà il suo popolo più evoluto e più disciplinato; e i fanciulli e i giovani inquadrati e educati sotto le insegne di Roma antica e sempre nuova. Tutto si trasforma e progredisce, e tutto qui è trasformato e migliorato. Ma c'è un angolo nella casa avita che è rimasto così come Egli lo lasciò dopo l'ultima licenza militare. La sua cameretta è ancora piena dell'aria, del senso e dello spirito del giovane Ufficiale, dello studente ventiquattrenne; e il lettuccio di ferro ha tuttora il profumo della sua esuberante giovinezza. Nulla di più se non i cimeli di guerra, le divise, il moschetto, l'elmetto e quanto gli appartenne sul campo; e le medaglie al valore, e i quadri celebrativi. Nulla di meno se non il suo corpo, che l'anima, pur spaziando nel cielo della patria, e lì dentro. C'è anche, lì dentro, una lampada votiva che tutto rischiara, ma c'è soprattutto il gran cuore della Mamma che tutto illumina.
     Oggi, quando l'Eroe entrerà nel camposanto della sua Loreto per andare a dormire nella cappella gentilizia, fra i suoi maggiori, i Morti stessi si leveranno a salutarlo e gli offriranno i lauri e i fiori delle loro tombe. Entreranno idealmente con Lui gli altri centoventi Loretani caduti sul campo dell'onore per una Patria più grande e più forte. Egli li riconoscerà ad uno ad uno: Giuseppe Chiola, Emilio Palladini, Clementino De Fermo, Vincenzo Di Benedetto... studenti, artigiani, agricoltori della sua terra. Eroe fra i valorosi, glorioso fra i degnissimi, di tutti il più alto in grado, a tutti si metterà davanti, e con i suoi occhi neri e grandi, col suo petto largo e forte, col sorriso aperto e sereno di fanciullo buono e giocondo, nel regno della pace come già in quello della guerra, per tutti raccomanderà a Dio l'Italia degli Italiani! (Pasquale Ritucci)



   
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