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      In quelle parti sopra il Monferrato che si chiamano Langhe, dove il dilagare della rivoluzione francese era stato sentito prima che nelle altre terre subalpine; passati che furono i tempi di Napoleone, la vita a poco a poco tornò a correre quasi quale un mezzo secolo avanti. Con un po' d'arte, lo Stato e la Chiesa vi rimisero tutto nell'antico andare; molta disciplina civile, molte pratiche religiose, indussero di nuovo il sentimento dell'esser vivi ognuno a godere il poco a lui possibile e ad espiare la sua parte del peccato originale: molta rassegnazione, molto dubbio dei così detti beneficii lasciati dalla rivoluzione, alcuni dei quali veramente non si potevano disconoscere, ed erano, tra gli altri, le opere pubbliche, le grandi strade aperte da Napoleone. Queste, sì, erano fatti; ma, insomma, egli stesso, Napoleone, per far quel poco di buono e durevole, aveva dovuto mettersi in capo una corona. E questa non gli era neppur bastata. Non avevano visto tutti? Appena egli se l'era presa col Papa, giù su lui le disgrazie! Era caduto nel nulla col suo impero. Che cosa giovava che in ogni città o borgo ci fosse qualcuno divenuto grande sotto di lui e che in tutti i casati ci fossero degli uomini che avevano girato per lui l'Europa, dalla Spagna alla Russia? Solo guadagno fatto da loro il potersi vantare d'aver servito quell'uomo, di parlare e di bestemmiare un po' il francese, di ricordare qualche frase d'altre lingue dei paesi dove erano stati condotti alla guerra o dove avevano vissuto da prigionieri.


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Cronache a memoria
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 64

   





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