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      Ma questo era il minor male: il grosso veniva dalla nobiltà genovese che era entrata in Corte, nell'esercito, nelle magistrature. Dispotica a casa sua, aveva portato nelle cariche e negli uffici uno spirito d'indipendenza, quasi di renitenza pericolosa. Eppure anche questa divenne prestissimo una questione secondaria, perché da Genova era venuto fuori un giovane senza legge né fede, con certe sue idee sull'Italia da far piantar le forche in tutte le piazze, se fosse stato ascoltato. Giovane Italia! Che cosa voleva dire colui con queste parole? E predicava la repubblica. Perché quando lo avevano chiuso nella fortezza di Savona non ve lo avevano addirittura murato? Lo avevano lasciato andare in esilio, che per lui aveva voluto dire libertà di andar a fare il male da lontano peggio che da vicino. Intanto egli aveva osato scrivere a Carlo Alberto Re nuovo una lettera piena di consigli, d'intimazioni, di minaccie; in pochissimo tempo aveva fatto proseliti dappertutto, fin nell'esercito, che si chiamavano dal suo nome mazziniani; poi questi avevano aspettato la sua venuta in Piemonte alla testa di tutti i fuorusciti, per palesarsi e insorgere in armi. E difatti egli aveva tentato il colpo della Savoia, onde era bisognato disperdere lui e gli invasori e dentro il regno mettere mano ai rigori, empire le prigioni, fucilare borghesi e soldati, non più in effigie soltanto come nel Ventuno.
      Dal loro punto di veduta, quei governatori avevano ragione. Convinti di essere i difensori della giustizia sociale quale doveva essere per diritto divino, erano sensibilissimi a intuir tutto ciò che si manifestava fuori dell'ordine concepito dalla loro mente: e tutto intorno ad essi veramente si risvegliava.


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Cronache a memoria
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 64

   





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