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      Così pure malignavano sul suo colloquio di quella notte con Santorre Santarosa. Per quei nemici era stato di raffacci a lui fatti perché non era corso a Torino e in Alessandria a mettersi nella rivoluzione; ma per gli amici fu una calda preghiera di Santorre, ond'egli si adoperasse per chi veniva dietro stentando, e sarebbe passato nella valle e nel borgo.
      E il giorno appresso a quello di poi fu visto da lontano un polverone segnar la marcia di molta gente che veniva rimontando la valle. Era di domenica. I contadini uscivano dalle anguste convalli, scendevano dai colli, sbucavano di tra le salciaie della Bormida, e guardavano quella gente che andava come se ci fosse qualcuno alla testa che la guidasse. Non erano soldati, benché tra loro si vedessero degli uomini in divisa militare, ma senz'armi; vestivano quasi tutti da signori e signorili erano d'aspetto.
      Bisogna dire che il cavaliere Stellani avesse data la voce agli amici suoi, perché quando quella gente fu al lungo ponte che mette nel borgo, v'eran ad accoglierla molti che la condussero in un giardino dove era stato apparecchiato da rifocillarla. Ma non grida, non atti: silenzio e rispetto. La folla da fuori stava anch'essa muta. Finito quel ristoro, quei profughi, che erano forse un cinquecento, quasi tutti studenti dell'Università di Torino, furono anche provveduti di biancheria, di calzatura, di denaro chi non ne avesse, e si rimisero in marcia, accompagnati dai men paurosi, perché paura avevano un po' tutti. Già si era tornato a parlare di Carlo Felice che da Modena aveva gridato la sua collera; e c'erano i compaesani che notavano, e già ridevano alle spalle dei costipati.


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Cronache a memoria
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 64

   





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