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      L'esercito di Novara era degno dei luoghi, dove lo avevano condotto a dar la prima prova del come era stato rifatto, fatiche, privazioni, disciplina, tutto; condurlo su quei monti nella parte del regno più lontana del confine austriaco, ma col pensiero alla bella pianura, alla sponda del Ticino, dove il cuore non poteva stare che non passasse di là... L'altra riva, che sospirata campagna! Ma per quando? E tra i reggimenti che venivano via o sparivano sulle gole quali da vinti, quali da vincitori, si udivano dei signori che non parlavano né piemontese né genovese. "Sono lombardi, sono veneziani" diceva la gente che ne sapeva un po' di più, "sono toscani, sono romani". Oh, quanti paesi d'Italia!
      E la finzione di guerra non era finita. Due giorni appresso, tutto l'esercito era a Dego, a quella stretta di Dego che pare fatta perché gli uomini la trovino e vi si incontrino a farvi le loro stragi. E chi non aveva potuto vedere Vittorio Emanuele in Montenotte, lo vide là su certo poggio, dove la tradizione ancor fresca diceva che si fosse fermato pur Buonaparte. Stava il Re non per darsi dell'aria, ma pensoso, a guardare il suo esercito simulare gli assalti e le difese, onde potersi fidare d'adoperarlo sul serio quando fosse tempo. Era allora tutto biondo, giusto di forme, d'occhi brillanti, quasi bello. Il suo baio gli si muoveva sotto come se si sentisse d'aver l'animo da lui. Cavalcava grave al suo lato sinistro il generale Lamarmora, di cui le donne e i ragazzi dicevano che era ben brutto.


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Cronache a memoria
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 64

   





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