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      Fatti i conti, dei siciliani che ci seguirono da Palermo in qua, un mezzo centinaio se ne sono già andati, alcuni portando via anche le armi. Sono contadini che si accendono come paglia e presto si stancano. Il Consiglio di guerra li condanna a morte; si appiccano le sentenze come lenzuola alle cantonate, ma si lascia che i condannati se ne vadano alla loro ventura, purché lontano. I buoni sono quelli delle città e i Palermitani, giovani colti, amorosi, pieni di rispetto. Malveduti sono alcuni ufficiali che paiono chierici. Quando le compagnie vanno agli esercizii, le accompagnano portando le spade come torcetti poi si tirano in disparte e par loro d'essere sciupati nel dover assistere a quelle bassezze dell'imparare come si maneggia un'arma, come si muova ordinati. Se fossero stati l'anno scorso in Piemonte! Giovani dei migliori di tutta Italia si lasciavano strapazzare da quei caporaloni grigi che parlavano di Goito, di Novara, della Crimea, e insegnando lanciavano insolenze peggio delle guanciate. Pur d'imparare, sopportavano tutto quei giovani. Ricordo d'un Conte veneto che caricava su d'una carretta lo strame, della scuderia. Passò il caporal Ragni con la gamella in mano.
      — Bestie tutte come voi nel vostro paese? Chi v'ha insegnato a maneggiare il bidente?
      Il Conte rispose sorridendo non so che, in italiano.
      — Ah! siete un volontario? Allora che cosa è questa?,
      — Una gamella.
      — La patria! urlò beffardo il caporale, battendo le nocche su quell'arnese di latta. Il Conte sorrise ancora.


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Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 167

   





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