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      Là i compagni nostri vedranno le ruine dei templi che piacquero a Byron, nella squallida landa sotto cui dorme un gran popolo. Il mandriano guarda indifferente quelle file di colonne silenziose, e il navigante si inchina ad esse da lontano.
      Leonforte, 11 luglio.
      Il capitano Faustino Tanara solo, ritto su d'un poggiolo, guardava co' suoi piccoli occhi l'orizzonte largo; pareva un aquilotto che stesse cercando una direzione per provarsi a volare. Sulla sua faccia ride l'anima franca e ardita, ma non v'è mai allegrezza piena. Eppure la certezza d'essere amato da tutti dovrebbe fargli gettare sprazzi di luce dal core. Che dolce natura! Il più meschino soldato gli è carissimo, persin Mangiaracina, un siciliano di non so che borgo dell'Etna, testone che pare un maglio in una parrucca fatta di pelle d'orso, e ha gli occhi sotto certe grotte, da dove guardano come due malandrini appostati. Un dì vidi Tanara in collera, stanco di Mangiaracina che butta le gambe come un ippopotamo e fa rompere il passo alla compagnia. Gli prese l'orecchio e pizzicando gli disse: «Ma tu perché ci sei venuto con noi; e l'Italia che se ne deve fare della carnaccia tua?». Mangiaracina gli si empirono gli occhi di lacrime, e guardando il suo Capitano come fosse stata la Madonna, umile e dolce rispose: «Cabedano, ci aggio 'no core anch'io». Tanara gli strinse la mano.
      Egli ha trent'anni. In battaglia si trasforma. La sua persona nervosa guizza, scatta, squarcia come saetta nelle nubi. Allora tutti lo ammirano; si teme di vederlo l'ultima volta: dopo si rincantuccia malinconico; non gli si può cavare una parola.


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Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 167

   





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