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      La vista di quelle genti, di quelle assise, che ridestavano i ricordi di Marta, levarono a speranza l'animo del pievano; il quale fu il primo ad ossequiare il capitano dell'impero, annoiandolo con certa orazione latina, che diceva come i popoli delle trentasette terre delle Langhe, rammentassero d'essere stati sudditi di sua Maestà Imperiale, sino a cinquant'anni addietro; e che bramavano d'essere tenuti dai signori Alemanni come cosa loro. Offerse agli ufficiali la sua casa, la sua cantina, tutto sè stesso: e se d'una cosa si dolse, fu d'aver udito che i più grossi eserciti d'Alemagna, si travagliassero in sul Reno, di cui egli non sapeva nè dove nè che cosa fosse. Quella, a sentir lui, era gente sciupata; quattro e quattro otto l'avrebbe voluta tutta lì in val di Bormida; tutta, da poterla vedere, affacciandosi al balcone; e allora si sarebbe messo a ridere dei Francesi. Tuttavia rifatto un po' più tranquillo, tornò a mangiare gagliardamente, a dormire sonni quieti, a dire ogni mattina alla punta del giorno la sua messa; alla quale s'affollavano i contadini, prima d'andare a far giornata nei campi, e vi venivano le serve e le donicciuole più divote del borgo, tra le quali Marta non mancava mai.
      La povera vecchia soleva alzarsi prima che fosse l'alba, e queta queta, si metteva in capo il mesero stampato ad augelli e ad alberi; poi camminando in punta di piedi, e frenando la sua tosse mattutina, usciva di casa e saliva in castello. Per l'età sua ogni onesto le avrebbe consigliato di astenersi da quel disagio; ma essa faceva quell'erta come a bersi un bicchier d'acqua.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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