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      I tre adolescenti si fermarono sopra la lapide blasonata; trovarono a ridire sul cattivo latino dell'inscrizione; poi fecero alle pagliuzze cui toccasse discendere nel sepolcro in cerca del cranio. Come ebbero fatto, i due vincitori recatisi in mano le campanelle del coperchio, lo levarono a gran fatica sull'un dei lati, quanto il compagno potesse passare nel vano la sua persona: e questi, messe le gambe nella buca, peritoso, peritoso, si calò con forte batticuore, a frugare il sepolcro.
      I teschi erano laggiù in fondo, raccolti come ad amarsi, a consigliarsi; e alla poca luce che poteva là dentro, biancheggiavano in forme incerte. Più in là si vedeva buio, e pareva che ne venisse un'aria tetra, greve, umida, forse quella dell'eternità. Il giovinetto si spinse avanti carponi, e già stendeva la mano sopra uno dei teschi; quando i due del coperchio udirono una voce di donna gridare arrangolata dando loro dei monelli, disturbatori di morti! Subito la pietra del sepolcro ricadde con un tonfo pauroso; e i passi dei due fuggenti compagni suonarono cupi, sul capo del tapinello, rimastovi chiuso. Egli non osò movere un dito dalla paura d'urtare in qualche morto, levatosi a vedere che fosse; ma nè allora nè mai, seppe quanto rimase a quella tortura. Il fatto finì, che i compagni ritornarono; la tomba fu scoperchiata un'altra volta; egli agile come un tigrotto, ne fu fuori di lancio; e giù sui due menò tanti colpi e tanti n'ebbe, che se non fosse stata a chetarli a colpi di rastrello, quella donna istessa ch'era cagione del guaio, qualcuno dei tre finiva ridotto a mal partito.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480