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      Al quinto giorno, proprio quello in cui, se non avvenivano in C... le cose narrate qui sopra, si incontrava con Don Marco nella palazzina del signor Fedele; egli ed il leguleio stavano a consigliarsi l'un l'altro; ancora sotto quel pergolato di cui il lettore può essere sazio, ma che per essi era una delizia.
      Avevano almeno dieci volte preso a parlare di Bianca; ma il discorso uscendo di carreggiata, li portava sull'argomento della guerra, e della spedizione, vista da essi moversi e tornare in quella guisa vergognosa. Parlavano e sentenziavano ora da uomini di grand'animo, ora facendo lor conti da femminette paurose; e mentre il signor Fedele diceva che quello di cui più si sentiva afflitto, era il non saper nulla del barone; gli seguì un caso maraviglioso. Davano appunto di volta in capo al pergolato, col nome dell'Alemanno in sulle labbra; e videro venire di buona gamba il procaccio di C..., il quale teneva in una mano una lettera, nell'altra il cappello che si era tolto di sul capo, appena giunto in vista ad essi due. Costui baciò il cordone al frate, inchinò tre volte il signor Fedele; poi mostrandosi affannato più che non fosse davvero, disse a quest'ultimo:
      «Signoria, don Marco mi manda con questa lettera; ho fatto come il vento, ed eccomi, fui qui in uno sbadiglio di gallo...
      «Don Marco! pensò tra sè il frate, mentre l'altro leggeva la lettera; - o che vuole don Marco...?
      Glielo chiarì il signor Fedele ponendogli sotto gli occhi il foglio; e gridando al procaccio: «Corri, va, e dì a don Marco che volo; corri, sei qui ancora, lumacone?


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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