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      E allora ti ricorderai di me, nevvero?... Adesso provati a imitare questi segni che t'ho fatto in cima al foglio.»
      A Tecla, quelle parole suonavano piene di mesti presagi, e insieme di dolci promesse. Si appoggiò al tavolino, e cominciò a menare la penna di pollo d'India, sgorbiando certe lettere che un po' le riescivano somiglianti a scorpioni, un po' a girini; e a tratti la penna impuntando come bestia restia, schizzava inchiostro fin sulle dita della signora.
      In quella don Marco, giunto sul piazzale, si spolverava un tantino; e attraversato il corto andito, che dall'atrio metteva nella sala terrena, battè all'uscio pianamente, quasi gli fosse piaciuto di non essere inteso. Tecla corse ad aprire spedita.
      «O Dio! - sclamò la signora, facendosi bianca come la baverina, che dal collo le si rovesciava sulla veste turchina carica; e movendo incontro al prete, rimasto a quel grido sulla soglia impacciato, gli prese la mano lo guardò fisso, gli lesse negli occhi. A lui la lingua gli andò in fondo alla gola; essa non trovò la forza a dir altro.
      Con questa sorta d'accoglienza s'andarono a sedere vicino al tavolo, sul quale si vedeva il calamajo, la penna, il foglio sgorbiato da Tecla, e allora soltanto, così per aspettare che alla signora si quetasse quel rimescolo di sangue: «qui, - disse don Marco - qui abbiamo una scuola?» E pigliò in mano il foglio, ma non disse altro all'alunna, nè lodò la bella impresa, come sarebbe stato da lui. Tecla intanto accorta d'esservi di troppo, chiesta timidamente licenza, si tirò in cucina, sotto colore d'ajutarvi Marta in qualche faccenda.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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