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      «Gran musa l'amore!» disse tra sè, e sedutosi, cominciò a scrivere la lettera a quella gentildonna di Torino, molto raccomandandole il suo antico scolaro. Poi si coricò, e don Apollinare, Giuliano, il signor Fedele, l'Alemanno, Bianca e quella Tecla infelice, forse più di tutti; gli uni con faccia di scherno, gli altri di dolore, gli facevano nella fantasia una ridda, che gli metteva la febbre. Meditando sul fatto di quella sera, e sulle parole dette da Tecla nel punto in cui era stata trovata; finì per credere che Marta avesse ragione, e che la fanciulla fosse davvero innamorata del signorino. Il primo pensiero fu di immischiarsene pel bene di tutti, ma gli parve di sentirsi negli orecchi una gran risata del padre Anacleto, e la voce di lui dirgli: «prete, tu trovavi a ridire di me?» Con questo, contro ogni sua speranza, gli venne il sonno; e in casa la signora Maddalena tutto fu quiete, come fosse stata non abitata.
      CAPITOLO XII.
      L'indomani un po' dopo l'alba, don Apollinare stava sotto il portichetto della chiesa, con parecchie divote che avevano udito la messa; lo speziale apriva la bottega, e uscito a vedere che tempo facesse, si mescolava al crocchio: un uomo attempatetto, che era il cerusico, montato su d'un cavalluccio per avviarsi a visitare i malati, si fermava a barattar con essi qualche parola, sul fatto della sera innanzi: parevano l'ultima nuvola d'un temporale notturno, risolto da un vento benefico, in un mattino quieto.
      Marta, che manco per mezzo mondo, non avrebbe lasciata nella propria vita la lacuna d'una messa perduta, perchè le sarebbe parso di non si poter più fidare tranquilla all'eternità; aveva penato a non trattenersi a dire anch'essa la sua; ma si era fatta forza, e discendeva di castello frettolosa, per giungere a tempo, se la padrona e don Marco levandosi, bisognassero di nulla.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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