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      Giuliano attraversò la città, e andò a smontare all'altro capo di essa, a quell'osteria chiamata una volta dello scudo di Francia, adesso dei tre Re; quasi per far le cilecche ai francesi, che l'anno prima n'avevano tolto uno dal mondo.
      «Questo cavallo ha fatto più di venti miglia!» sclamò lo stalliere cui Giuliano diede le briglie, smontando nel cortile dell'osteria.
      «Potete dire anche trenta - rispose questi - abbiategli cura» e lasciando a colui l'animale, passò dal cortile ad una sala terrena, dove si dava da mangiare ai viaggiatori.
      Di quei tempi era un bel vivere! dicono i vecchi; e in verità in quelle cittadette mezze nascoste, e quasi dimenticate si stava in apolline. Si desinava nelle osterie semplici e disadorne: e se il viandante, seduto a mensa, levando il capo di sul piatto, non dava dell'occhio in ampio specchio, a vedervi sè stesso sfigurato dai moti plebei del biascicare; in cambio di queste magnificenze, gli era messo in tavola gran bene di Dio, per poca moneta. I vigneti fruttavano a dovizia; e se avesse usato lavare i piedi agli ospiti in sull'arrivare, come ai tempi antichi; lo si avrebbe potuto fare col vino, tanto ve n'era d'avanzo. I prati nudrivano le fienaie, per modo che carne e pane, stavano tra loro a spesa poco diversa; epperò lo osterie erano formicai di gente paesana e di viandanti, sui quali l'occhio materno dell'ostessa seduta al focolare, spandeva il dolce ricordo domestico; e l'ospite si stimava in casa sua.
      Giuliano andò diritto all'oste, il quale era un ometto tondo della persona, lucente nelle guance, e tenuto in sussiego da tre o quattro giogaie, che dal mento gli si digradavano alla sommità del petto; donde tra lo sparato della camicia, uscivano petulanti velli grigi, a guisa di gale.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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