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      I due, tornati mezzi avvinazzati dal banchetto del pievano, erano proprio sul piazzale, come Marta aveva detto; e davano ordini ai loro servitori, parlando imperiosi la loro favella. Essa in quei loro parlari non ci capiva nulla, ma spiegandoli a sè stessa alla sua maniera, già si figurava che davvero toccassero il suo figliuolo. Senonchè coloro, riveduti i loro cavalli, e detto ai servi quel che avevano a dire, se ne andarono di nuovo; forse a godere la serata, per tornare tardi pieni di vino e di gioia; gioia che in quella casa non doveva più brillare che su visi stranieri.
      Appena se ne furono andati, e sul piazzale non s'udì più che il passo dei servitori, e il cigolare dei secchi, e della carrucola del pozzo; la signora si provò a salire di sopra. Ma si fermò, perchè Marta, lasciato il lume in camera a Giuliano, veniva giù tastoni e strisciando il piede per trovare i gradini.
      «S'è buttato sul letto vestito e stivalato, com'era, e rimase addormentato morto.» Così la vecchia; e la signora:
      «Oh dorma! dorma! e che non gli venga in mente nulla, nè C.... nè Torino...!» e salendo in punta di piedi andò ad ascoltare e a vedere da sè.
      La stanchezza del corpo, aveva potuto più dello scompiglio dell'animo, e Giuliano dormiva sì fisso, che tutti i tuoni del cielo non sarebbero bastati a destarlo. Essa spinse l'uscio, entrò nella camera, appunto come aveva fatto la notte prima della sua partenza, e al chiarore della lucerna lasciata da Marta, stette a guardarlo. Giaceva supino; il petto gli si gonfiava a lunghi respiri; le guance attenuate dalla fatica erano pallide; le sopraciglia, i capelli, i panni aveva polverosi; pareva un guerriero che riposasse dopo la battaglia.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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