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      E bisognava vedere quei garzoni, come finita una danza, facevano a chi fosse più spedito a ripigliar il posto sullo spazzo, affollando il festaiuolo, empiendogli di spiccioli le mani. Ed egli pigliava e ringraziava per sè e pel convento, cui doveva pagare la decima; poi diceva ai musici che tornassero a suonare, e significava ammiccando che egli voleva suonate corte e frequenti.
      La vista di quel ballo era la cosa più ghiotta della sagra, e i signori vi si disfacevano dalle risa. Essi vi adocchiavano le belle campagnuole, imparando a conoscere i loro amori. Onde accadeva sovente, che dopo quella e altre feste compagne, qualcuno di essi si mettesse di mezzo a far parentadi, tra giovani veduti appassionarsi in quegli strani convegni: e allora il più delle volte, virtù addio!
      Mosso da curiosità, Rocco volle avvicinarsi a quello spettacolo; e a forza di gomiti fattosi un po' di passo, ecco a quale incontro inatteso egli riusciva.
      Il zio di Tecla, che non era giunto a cavare a questa quattro parole, in ventiquatt'ore dacchè l'aveva in casa; messosi in testa di darle un po' di svago, s'era accompagnato con essa ad alcuni vicini, uomini e donne; capitando al convento, forse un po' prima, forse un po' dopo di Rocco. Fatte le divozioni e pigliati anch'essi i ristori, in una delle tante baracche; i montanini avevano finito per mescolarsi alla folla che faceva corona al ballo; e alcune giovinette della comitiva presero a danzare, mentre alcune altre, modeste e quasi mortificate, stavano a vedere; e tra queste Tecla.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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