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      Ma non aggiunse parola a quel mesto sorriso, da mostrare la speranza così languita: bensì voltasi a Tecla:
      «O Tecla, - diceva - dunque tu sei tornata...? Noi ripiglieremo le nostre usanze, le nostre letture, le nostre penne... nevvero? Perdonami sai, se t'ho fatta andare a Santa G...; hai fatto bene a tornare, Marta ci darà da cena, tu rimani qua.... Rocco, voi e vostra moglie verrete a mangiare con me un boccone, e mi racconterete tutto....»
      Tecla sempre colla mano nelle mani di lei si sentiva tremare il cuore, e ringraziava il cielo che Giuliano non fosse a casa.
      CAPITOLO XVII.
      Giuliano detto addio a Rocco, s'era trovato solo, in parte dove niuno faceva guardia al rigagnolo, che partiva le terre del Re di Sardegna, da quelle della repubblica Genovese. Non gli rimanevano a fare che pochi passi, e poi avesse avuto dietro di sè tutta la cavalleria, che lungo la vallata della Bormida, pasceva i cavalli ungheresi coll'erbe di quei poveri montanari; egli si sarebbe potuto volgere dall'altra sponda, a riderle in faccia; sicuro come a essere a Genova in casa al Doge. Sino a quell'ora, la neutralità della repubblica, era stata rispettata dagli Alemanni.
      Ma nell'atto di sconfinare, l'aveva preso un nodo al cuore, e si era fermato come uomo che non può reggersi ritto a tirare innanzi. Forse i proscritti dei tempi di mezzo, si fermavano in quella mesta guisa al confine del loro comune; volgendo gli occhi alle torri, alle cupole della città dond'erano sbanditi: e l'immagine di Guido Cavalcanti sulla via di Sarzana, collo sgomento dell'esilio in viso, e colla malinconia che gli ispirò la ballatetta afflitta e famosa; si forma nella mia mente pensando qual fu Giuliano, in quell'ora.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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