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      Per questi suoi portamenti, già quei della terra lo chiamavano pazzo, pur avendolo in grande rispetto, perchè lo sapevano medico; e poteva loro accadere di aver bisogno dell'opera di quel signor magnifico; come di quelle parti usano anche adesso salutare i medici dei loro villaggi.
      L'ortolano, che a poco a poco era entrato con lui in qualche dimestichezza, e lo serviva di quel che gli bisognava dal borgo; un giorno che Giuliano aveva la noia sino alla gola, gli recò la novità di certe voci che correvano, secondo le quali, a Torino, molti giovani carcerati poco tempo innanzi, erano stati messi a morte per mano del carnefice. Il pover'uomo aveva inteso la cosa nella spezieria del borgo, dove il parroco e i signori ne avevano parlato con diverso giudizio; ma egli che a quello del parroco si accostava più volentieri, diceva che quei giovani, essendo stati appiccati alle forche, dovevano aver vissuto da cattivi soggetti. Giuliano a quella novella si sentì schiantare il cuore. Coloro cui quella trista sorte era toccata, egli sapeva chi erano; e dal raccapriccio non gli stava il cappello in capo. Non istette a correggere l'opinione dell'omicciattolo, che tanto sarebbe valso come dire al muro; ma quel giorno decise di tornare al campo Francese, dove qualcosa avrebbe potuto sapere di più certo. E siccome la venuta di sua madre non gli pareva che dovesse accadere sì presto; chiuse la villetta, diede le chiavi all'ortolano, rimase d'accordo, che se qualcuno fosse capitato a cercarlo, egli corresse subito al campo dei Francesi, che in qualche modo l'avrebbe trovato; poi per la via più corta s'incamminò verso Loano.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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