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      Ne nominò molti, dolente di non potergli additare quello che era il più illustre di tutti. «Ma lo troveremo forse dal generale»: disse l'uffiziale, e pigliato Giuliano a bracetto lo mise dentro al convento. Questi si lasciava fare come un fanciullo; perchè a vedere quei personaggi gli pareva di non aver mai vissuto. Essi non avevano aspettato d'avere le rughe sul viso per essere uomini; e già, poco meno giovani di lui, empievano l'Europa dei loro nomi!
      Entrati dal generale Dumorbion, lo trovarono che stava ritto dinanzi ad un ampio tavolo, sul quale un colonnello d'artiglieria, gli segnava col dito teso certe sue diavolerie, scritte su d'una carta geografica o itineraria che fosse. Era costui quel personaggio, che l'uffiziale aveva sperato di vedere là dentro: giovane, a giudicarlo, di forse ventiquattro anni, magro, malazzato, che non pareva vivere che cogli occhi, ma di volto bellissimo e maestoso. Egli non levò gli occhi dalla carta, e parve attendere ad un tempo a questa, ai due sopravenuti e a Dumorbion; il quale cominciando senza cerimonia, chiese all'uffiziale chi fosse il giovinotto che aveva seco.
      «Generale - rispose Giuliano in lingua francese, senza dar tempo al compagno di parlare per lui: - io sono il tale dei tali, medico di D.... in Val di Bormida, e vengo....
      «Val di Bormida? - interruppe Dumorbion, che appunto allora aveva levati gli occhi di sulla carta, su cui era segnata quella vallata: - e che cosa si fa laggiù?
      «Laggiù? - rispose Giuliano - il popolo soffre, i ricchi godono, gli Alemanni spadroneggiano.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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