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      Entrando da don Marco s'abbandonò spossato sul vecchio divano; e il prete si diede attorno per ammanirgli un po' di cena, con pane ed uva, che s'era procacciato a fatica. Ma quando ebbe apparecchiato e chiamò l'ospite, per offrirgli quella grazia di Dio, e farsi raccontar meglio le cose avvenute al convento; lo trovò addormentato di sonno così profondo, che manco una cannonata l'avrebbe svegliato. Egli allora s'ingegnò ad assettare i cuscini del divano, in guisa che non dormisse a disagio; poi fatto coll'indice un cenno, come per fare star zitto qualcuno, tolse di là il lume, e in punta di piedi andò a porsi nella stanza vicina. Ivi chiuse gli occhi anch'esso, e come li riaperse, credè di avere dormicchiato forse un'ora. Ma se gli fosse venuto in mente d'affacciarsi a guardare il tempo, avrebbe udito un rumore venir di lontano, somigliante a quello di mare che si franga tranquillo alla riva. Era l'esercito della repubblica, che ripigliate le armi, si riponeva in via alle sue grandi venture.
      CAPITOLO XXI.
      Al primo rompere dell'alba, Giuliano e don Marco, erano già sul ponte; non essendovi stato verso pel giovane, di persuadere il prete a rimanersi dal seguire lui e i Francesi.
      Quello era il primo giorno d'autunno. Una nebbia densa occupava l'aria; e la Bormida faceva quei fumacchi, che quando io era fanciullo, mi parevano d'acque scaldate di sotto dal demonio. Pochi borghigiani usciti a pigliar lingua dei Francesi, andavano di su di giù; ma niuno osava allontanarsi dal borgo due tratti di pietra.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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