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      Torme di avvinazzati andavano ciondoloni per le vie cantando; in castello suonavano le musiche intorno all'albero della libertà, piantato dinanzi la chiesa: e i pochi abitanti, che per vecchiaia o per non aver fatto a tempo a fuggire, erano rimasti(30) se ne stavano turati in casa, col cuore tra due sassi.
      Don Marco pensò arrivando, che le ore dovevano essere parse assai lunghe a Marta ed a Tecla; e disceso dal carro con donna Placidia, corse difilato alla casa di Giuliano, quasi senza ringraziare i Francesi della buona compagnia avuta. Appena fu sul piazzale diede un'occhiata all'atrio, e vide l'uffiziale messosi a guardia sulla cassapanca sin dal mattino, fermo a quel posto. Gli si allargò il cuore per la certezza, che niuno poteva aver turbato la pace religiosa, che si conveniva a quella casa; e diede una stretta di mano riconoscente al Francese, che entrò con lui e con donna Placidia, nella sala terrena. Là Marta, aiutata da parecchi altri uffiziali amici di Giuliano, finiva d'ornare la morta, già bella e vestita del saio, e adagiata dentro la bara. Tecla accompagnava collo sguardo l'opera della vecchia, come persona che non sa perchè sia lasciata al mondo. Don Marco stupì di vedere a quel segno la mesta bisogna; ed uno dei Francesi, che riconobbe appunto per quello da lui inteso il dì innanzi, con piacevolezza domestica parlar a Giuliano; gli si fece incontro e gli disse:
      «Spero che l'amico nostro, mi scuserà d'aver fatto fare questa bara, da due dei miei soldati....
      «Ma, e di Giuliano sa nulla?


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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