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      Pose anzi cura nel togliermi di mano le fila, tanto che nel cercare da me non mi raccapezzassi: aggiungendo che sarebbe stata opera vana, perchč nulla mi avrebbe aiutato, neanco l'aspetto dei luoghi, mutati del tutto dai nuovi abitatori. A stento aggiunse le poche cose che ho scritte: e avendogli io chiesto qual fine avessero fatto don Marco, padre Anacleto, Bianca e gli altri personaggi; mi rispose che se io voleva vedere a spegnere i ceri l'un dopo l'altro, andassi in chiesa la settimana santa. Io tacqui: ma se quel che raccolsi da altri, si accorda con quello che ebbi da lui; don Marco deve essere vissuto sino all'anno in cui capitarono la seconda volta i Francesi condotti da Buonaparte. Quella volta don Apollinare, tornato col suo comodo alla sua Pieve, non fuggė pių. Stette invece saldo al suo posto, aiutando i buoni a tener la pace tra paesani e Francesi; con molte lodi di Giuliano, tornato anch'egli, dopo un anno di lontananza a casa sua. Perō non si parlarono tra loro che quella sola volta; sebbene paia che il giovane medico e Tecla e la famiglia che venne su, non siano stati infelici. Marta morė l'istess'anno in cui donna Placidia cessō di parer viva; consolata, povera vecchia, d'aver visto nascere in quella casa un bambino della terza generazione. Ma fino alla morte, non cessō di dolersi d'essere venuta al mondo, in tempi in cui di matrimoni tra una villanella come Tecla, e un giovane signore come Giuliano, non usava vederne. In quanto al signor Fedele durō ancora parecchi anni, senza vivere nč campare; assistito da quell'angelo di bontā che era la cieca Maria; ma nč l'uno nč l'altra videro il loro secolo finito.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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