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      E per amore o per forza le fecero lavorare.
      Bisognava far presto a levar la gente e le poche cose da guerra e le artiglierie dai due vapori, perché in men di due ore quelle navi che si vedevano sempre più vicine potevano giungere a tiro e fare una strage. Intorno al Lombardo e al Piemonte parve un finimondo.
      Intanto Turr con Missori, Pentasuglia, Argentino, Bruzzesi, Manin, Miocchi, discesi primi, salirono alla città, su cui cominciavano a sventolare bandiere d'altre nazioni, ma le più inglesi. E dalla città alcuni cittadini calavano al porto timidamente. Dei ragazzi li precedevano a corsa; sopraggiungevano frati bianchi, che davano poderose strette di mano a quegli strani forestieri sbarcati in armi e tutti vestiti alla borghese, salvo pochi in qualche divisa piemontese o in camicia rossa, forse una cinquantina. E quei frati facevano delle domande strane, da curiosi ma semplici; e udendo da uno dir che era di Venezia, da un altro di Genova, di Milano, di Roma, di Bergamo, inarcavano le ciglia, maravigliati come se l'esser essi potuti giungere nella loro Sicilia da quelle città, fosse cosa quasi fuori del naturale.
      In un'ora o in un'ora e mezzo al più, tutta la spedizione fu a terra. Qualcuno si ricordò che quel giorno era venerdì, malaugurio; qualcun altro disse che era pur venerdì il giorno in cui Colombo partì da Palos, e che andassero al vento le superstizioni...! Ma a un tratto tuonò una prima cannonata. Le navi borboniche giungevano a tiro.
      Erano tre: due a vapore più vicine, la terza a vela tirata a rimorchio da una di esse e lasciata poi indietro per far più alla lesta.


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Storia dei Mille
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 190

   





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