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      Certo nell'esecuzione di quel suo disegno vi furono dei momenti ne' quali poté parere il disegno stesso non fosse ben fermo, né Garibaldi lo contesterebbe. Ma poi, che contestare quando si sa come egli pensava e sentiva? La guerra non la faceva per gusto, e non era per lui né scienza né arte. Si trovava al mondo in queste nostre età, in cui essa è ancora uno dei mezzi per far trionfar la giustizia, e la faceva senza cercarvi né gloria né altro. Anzi ne dimenticava i fatti appena li aveva compiuti. Non è forse vero che quando, per esempio, scrisse di Calatafimi, che pur egli stimava uno de' suoi più bei fatti d'armi, ne scrisse quasi come uno che non vi fosse stato presente, e non avesse mai visto neppure quel campo? Nei tempi che verranno, tale noncuranza sarà forse il titolo più alto per la sua gloria di generale, cui nessuno preparava i mezzi di guerra, che tutto doveva improvvisare ed eseguire, solo con l'aiuto d'uomini devoti a lui come a un'idea; e col sentimento del bene, e con la fede in qualche cosa di superiore da cui si credeva assistito, andava avanti vincitore sempre, almeno moralmente anche quando era vinto.
      In quel bosco, la forza misteriosa superiore da cui gli pareva d'essere assistito, gli si rivelò nello splendore d'Arturo, la bella stella che egli sin da giovane marinaio aveva scelta per sua. Lo udirono i suoi intimi rassicurarsi in quello splendore. Ciò almeno fu detto e creduto per tutto il campo, dove sottovoce si diceva che il Generale era lieto perché Arturo appariva fulgido più che mai.


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Storia dei Mille
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 190

   





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