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      Sparsa la notizia tra i Carabinieri genovesi, andò al Parco Antonio Mosto con alcuni amici; e sul monte, ancora nel posto dov'era stato ucciso, trovò il suo fratello, dolce e gracile giovine, da otto giorni insepolto. E nello stesso posto lo seppellì.
     
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      Garibaldi, un di quei giorni, verso sera, fece una passeggiata a cavallo per la città, passando pei luoghi dove le barricate erano meno fitte. Dire che accoglienze gli faceva il popolo parrebbe ora poesia, ora che il mondo è tanto mutato. Miravano le turbe quella figura dolce, e non sapendo ben capire come ad essa convenisse il gran nome guerriero, chinavano religiosamente la fronte, o gli si protendevano come ad un essere sovrumano. Non era difficile immaginare le folle deliranti di certi altri paesi prostrate per voluttà di farsi schiacciare dai carri sacri. Egli correggeva con lo sguardo quei fanatismi.
      Spirato quel termine di tre giorni, fu prolungato l'armistizio di altri tre. Si indovinava in ciò gli ondeggiamenti della Reggia di Napoli, dove il re mite e le donne fiere tenevano la questione sospesa tra i consigli di chi voleva che Palermo fosse tutta ridotta in rovine, e il vecchio saggio Filangeri che ammoniva il Re, supplicandolo di non si mettere da sé, con quell'eccidio, al bando di tutta l'Europa liberale. E il suo consiglio prevalse. Così al terzo armistizio seguì una convenzione, per la quale i regi si obbligavano a sgombrar Palermo, però con l'onore delle armi. Garibaldi concesse.


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Storia dei Mille
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 190

   





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