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      Quella necessità medesima, che sforzava Orazio allo scrivere, e non gli permetteva di esser altro che leggiadro scrittore, quella stessa necessità non potea pure impedir Dante di altamente pensare, e di robustissimamente scrivere. Diversi dunque, e d'assai, erano per loro natura gli animi di codesti due scrittori.
      Ma, che vengo io da questa lunga digressione a concludere? che la protezione principesca può forse giovare, o almeno non nuocere, alla perfezione delle lettere quanto alla lingua, e all'eleganza dei modi; ma che alla perfezione vera di esse, la quale nella sublimità del pensare, e nella libertà del dire si dee principalmente riporre, non solamente non giova, ma espressamente nuoce ogni qualunque dipendenza; cioè ogni protezione: eccettuandone però sempre quella, che accorderebbe una vera repubblica, non per capriccio o favore, ma per giusta, ragionata, e imparziale generosità. Un uomo che scrive per giovare veramente al pubblico, può, senza arrossire, ricevere ricompensa da quel pubblico che veramente si trova beneficato da lui. Ma, come mai può egli riceverla da un potente, il di cui interesse è per l'appunto l'opposto di quello del pubblico? e come mai può accordargliela quel potente? Ecco il come: se lo scrittore avrà falsificato le cose agli occhi della moltitudine; ed in ciò egli avrà manifestamente meritato l'odio o il disprezzo di essa: ovvero, se avrà minorata la verità, per compiacere al potente: ovvero, se l'avrà mascherata e anche affatto taciuta, per non offenderlo.


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165

   





Orazio Dante