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      - Non si può negare - io soggiunsi - che, stando alla opinione di coloro i quali vogliono che la luce sia una effusione della sostanza medesima del sole, quasi un'ardente pioggia ch'egli mandi fuori del continuo, taluno potrebbe vivere, e non a torto; in grande apprensione. Per quanto finissime sieno le particelle della luce, più fine ancora delle particelle odorose che esalano da' corpi, i quali nulla però perdono, anche in lunghissimo, del loro peso, ci sarebbe da temere, non quel tesoro venisse finalmente al basso, e di avere un giorno sul bel mezzodì da restare al buio. E forse, per li tanti dispendi, che fa di continuo il sole, dicono i filosofi del Malabare che di sette occhi ch'egli avea, sei ne sono già chiusi, e non glie ne rimane ora che un solo di aperto. Ma ecco che per questo conto noi possiamo essere più animosi. Tale, come voi avvertite, Madama, è la condizione del sole, ch'egli può ogni momento fornir di luce tutto quanto il mondo, e non perder egli mai niente del suo. E se proprio è della luce, ch'ella trascorra in un istante uno sterminato cammino, e che il suo corso, come dice un poeta inglese, è finito allorché incomincia, vedete come la luce cartesiana lo faccia con un niente: che per lei appunto un niente sono i milioni e milioni di leghe. E questo avviene perché, secondo il Cartesio, ogni cosa è pieno, senza che vi sia il più minimo spazietto di voto. Immaginate una picca quanto si voglia lunghissima, la quale, mossa che sia dall'uno de' capi, muove nel tempo istesso anche dall'altro.


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Dialoghi sopra l'ottica neutoniana
di Francesco Algarotti
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