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      Quando fu lì, che con la coda quasi toccava l'anitroccolo, dischiuse i denti aguzzi e... platsch! - se ne andò senza toccarlo.
      Dio sia ringraziato!
      - sospirò quello: "Sono tanto brutto che nemmeno il cane vuol mangiarmi!"
      E così rimase quatto quatto, mentre i pallini fischiavano tra le canne e gli spari succedevano agli spari.
      Soltanto tardi nel pomeriggio tornò la quiete, ma il povero piccino non osava ancora muoversi. Lasciò passare molte ore prima d'arrischiarsi a guardare attorno; poi, quanto più presto potè, in fretta e furia, lasciò la palude. Correva correva, per campi e per prati; ma era scoppiato un temporale, ed a stento riusciva ad andare innanzi.
      Verso sera giunse ad una misera capannuccia, ridotta in uno stato così deplorevole, che rimaneva ritta per non saper da qual parte cadere. Il vento s'era fatto tanto furioso, che l'anatrino dovette accoccolarsi, per non esser portato via. E la furia del temporale cresceva sempre. La povera bestiola osservò che la porta, uscita dall'uno dei cardini, era sgangherata per modo, che dalla fessura egli avrebbe potuto benissimo penetrare nella capanna. E così fece.
      Nella capanna abitava una vecchietta, col suo gatto e la sua gallina; il gatto, ch'essa chiamava Figlietto, sapeva far groppone, sapeva far le fusa, e persino mandar scintille, quando, al buio, lo si accarezzava contro pelo; la gallina aveva certe zampine, piccine piccine, e per ciò si chiamava Gambacorta; faceva le ova d'oro, e la vecchia le voleva bene come ad una figlia.


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40 Novelle
di Hans Christian Andersen
pagine 345

   





Figlietto Gambacorta