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      Granne cosa fao intorno allo palazzo la iente vana. Chi lo mira, chi li tocca lo pelo, chi lo capo, chi li bennardi. E·llo cavalcano. Ora lo voco fare annare. Granne ène lo cifolare, granne è lo romore. Staieva là un famiglio dello legato. Parzeli male de tanta licenzia, reprenneva la iente. Alle represe aionze le menacce. Onne perzona fece partire fòra dello steccato. La iente non voize più odire. Prenne prete a piena mano, rompo lo steccato e tiengo dereto allo famigliaccio. Iettavano prete su allo palazzo. Gridavano come se fao allo Patarino. A questo romore traie la iente con vastoni e stanche. Dalla piazza de Santo Pietro traio quelli de Puortica armati de tutte arme, clinora de acciaro, pavesi, panziere, scudi, valestre. Allo palazzo se fao lo granne commattere. La porta serrata era. Lo romore era terribile. Le prete fioccavano, verruti e lance, lanciate como acqua ventosa. Ben pare che per forza vogliano tollere la fortezza. Quanno lo legato sentìo ciò, maravigliaose e abbe paura. Staieva su alli balconi de sopre. Sopre tutto vedeva. Non sapeva per che cascione questo fussi. Davase delle mano per lo visaio e diceva: «Questo que vole dicere? Que aio io fatto? Per que tanto detoperio me se fao? Vedi como date cascione voi Romani che·llo patre santo venga a Roma! In questa terra lo papa non fora signore, non fora iusto arciprete. Non me cresi venire a badaluccare. Haco li Romani somma povertate e granne regoglio». Stenneva la mano e faceva semmiante che cessassino de tale furore.


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Cronica - Vita di Cola di Rienzo
di Anonimo romano
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