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      E non pertanto resisteva ancora.
      Ma in quel mentre s’udì un rumore di fuori e Pacifico Santinelli con una sforzo supremo riuscì a strangolare il disgraziato carceriere, il quale quand’egli aprì il cerchio delle mani, aveva resa l’anima a Dio.
      Il rumore esterno che aveva affrettato la catastrofe, proveniva dai passi della moglie del carceriere, la quale, inquieta per la prolungata assenza del marito e per le minacce che aveva udito pronunciare dal carcerato, moveva incontro a lui.
      Non appena fece capolino nella cella, Pacifico l’afferrò e rovesciatala brutalmente sul cadavere del marito la condusse alla stessa fine di lui, strozzandola e schiacciandole il petto con le ginocchia.
      Quindi staccate le chiavi dalla cintola del carceriere, fuggì tirandosi dietro la porta della cella. Sperava potersi appiattare in qualche buio angolo finché giungesse il momento opportuno per la fuga. Ma fatti pochi passi s’incontrò in un manipolo di birri che scortavano un altro carcerato: fu subito riconosciuto ed arrestato. Scoperto il delitto si eresse il giudizio e contro le palmari prove non resistettero a lungo i dinieghi del reo. Condannato all’impiccagione e affidato alle mie mani la subì coraggiosamente, confessando di meritarla aggiungendo: «Forse le mie vittime pregheranno in Cielo per me, la vendetta e i risentimenti non varcano i confini del regno dello morte».
      II.
      L’assassinio di un prete.
      Non meno arduo affare fu per me l’esecuzione degli uccisori del sacerdote don Giovanni Lupini, che mi toccò fare il 6 maggio 1800, la quale destò in Roma a quell’epoca grandissimo rumore.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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