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      Or avvenne che, essendosi ammalata in città una sua sorella, vecchia zitellona, dalla quale sperava ereditare, le mandò per ingraziarsela a prestarle cure la nipote e la serva. Quest’ultima veramente l’avrebbe trattenuta volentieri presso di sé. Ma trattandosi alla fin fine di pochi giorni si rassegnò a privarsene.
      La notte susseguente alla partenza delle due donne, don Giovanni Lupini, dopo aver lautamente cenato, servito a tavola da una delle sue contadine, e copiosamente libato il frizzante vinello delle sue vigne di Monte Mario, si coricò.
      Era ancora immerso nel primo sonno, pesante e duro, quando si sentì serrare alla gola da due mani poderose: tentò gridare, ma la parola gli morì nella strozza e dati due o tre sussulti, giacque cadavere irrigidito nel suo letto.
      E così lo trovarono la mattina dopo i suoi contadini, i quali veduta aperta la porta entrarono, credendo fossero ritornate le donne, per dar loro il buongiorno. Ma non appena furono penetrati nel cortile e videro l’alano steso esamine al suolo, furono presi da sinistri sospetti e s’affrettarono alla camera del padrone.
      Tutta la casa era stata messa a soqquadro: forzati gli armadi, i canterani e la cassa dove don Giovanni soleva riporre i suoi danari. Svaligiata la dispensa e sulla tavola di cucina gli avanzi miserrimi di un pasto pantagruelico che i ladri avevano fatto.
      Che più? Dalla cantina saliva su un odore di vino assai acuto. Scesi, trovarono che prima d’andarsene i malfattori avevano aperte le botti e lasciato che il contenuto colasse al suolo, disperdendo così quella grazia di Dio, che non avevan potuto portar via.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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