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      Quindi incominciò la carneficina. Il palco sembrava trasformato in una bottega da macellaro. Terminata anche questa operazione e deposte le teste e le braccia nella canestra, accendemmo la pira all’uopo innalzata e vi bruciammo i resti sanguinolenti del Lucarelli e del De Angelis. I vapori che si sviluppavano da quel carname in combustione si sollevavano biancastri e diffondevano una puzza nauseabonda.
      A rizzare le teste e le braccia su porta Angelica, però dovemmo aspettar la notte, perché l’autorità pensava essere troppo pericoloso il farlo presente la folla.
      All’albeggiare del giorno seguente i burrini che entravano da Porta Angelica, vedendo il truce spettacolo di quelle teste recise ed infisse alla sommità, livide e contratte, erano presi da un senso di terrore, e molti tornavano indietro fuggendo, quasi avessero paura di dover fare la fine medesima.
      Risaputasi invece la cosa in città, fu un accorrere di gente infinita. In breve tutte le bettole dei dintorni riboccavano di curiosi, che vi traevano ilari, giocondi e contenti, come se si trattasse di assistere ad una festa. La forte fibra romana non si smentiva. Tutti erano convinti che la condanna era stata giusta e non credendo che malfattori di tale specie meritassero pietà veruna, mostravansi soddisfatti della giustizia eseguita e la festeggiavano.
      Vuolsi però aggiungere che la splendida giornata primaverile aggiungeva esca a quella gita, quasi processionale.
      Quanto a me, monsignor Fiscale, volle attestarmi il suo compiacimento per la quintuplice esecuzione così ben eseguita e mi largì una gratificazione straordinaria.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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