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      Viveva in città di Castello, nei primi anni del secolo un tal Francesco Conti, giovinotto aitante della persona, appartenente a famiglia d’agricoltori dei dintorni agiata, ma non ricca, che mandava a vendere in città i prodotti delle sue coltivazioni, erbaggi, frutta, derrate di vario genere.
      Francesco che aveva abitudini dissipate e amava poco la vita campagnuola, ottenne dai suoi di trasferirvisi e di aprire un negozio per lo spaccio delle loro merci. E quivi cominciò a darsi alle gozzoviglie ed a contrarre relazioni con facinorosi e farabutti d’ogni specie.
      Fra le pratiche del negozio del Conti, era una leggiadrissima giovinetta, orfana di madre, alla quale il genitore lasciava la gestione dell’azienda domestica, di nome Elvira Fontana. Costei si recava ogni giorno a far la spesa, accompagnata da una fantesca, e si tratteneva spesso a discorrere col Conti, ch’era un bel giovanotto dalle forme erculee, dal colore olivastro pallido, dagli occhi neri fiammeggianti, dalle labbra carnose e sensuali, fra le quali intravedevansi, quando sorrideva, denti piccoli e bianchi.
      L’umor faceto, le gaie proposizioni e i modi cortesi del bottegaio piacevano alla giovinetta; ma era dessa ben lontana dal supporre quali strani pensieri egli mulinasse nel cervello, quando posava gli sguardi avidi sopra di lei, e fu ben sorpresa, quando dai complimenti usuali, Francesco passò ad espressioni molto più esplicite e dirette.
      Un giorno mentre la fantesca era uscita dal negozio per un bisogno accidentale, il Conti trasse l’Elvira con un pretesto in fondo al negozio e, cingendole la vita con ambe le braccia, la baciò e ribaciò freneticamente sulle labbra, dicendole:


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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