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      - T’amo! T’amo, e devi esser mia a qualunque costo.
      La servente tornò in tempo e non s’accorse, o non volle accorgersi, del rossore che avvampava le gote della fanciulla.
      Elvira all’indomani mutò l’ortolano, né più tornò da Francesco Conti; ma si guardò bene di raccontare l’accaduto a chicchessia.
      L’ardito giovanotto tentò di riavvicinarla; ma non essendovi riuscito, pose il cuore in pace e s’ingolfò sempre più nella sua vita sconsigliata. In breve giunse a tale che si associò a una compagnia di ladri, coi quali scassinava di notte case e botteghe.
      Una notte s’introdusse in un palazzotto signorile, con altri cinque amici, ove gli era stato detto che c’era buon bottino a fare. Girando al buio per gli appartamenti, videro attraverso le commessure d’una porta filtrare un filo di luce. Entrarono. Era la camera da letto, ove dormiva discinta Elvira Fontana. Francesco Conti alla vista di quella formosissima creatura fu preso da una specie di delirio erotico, che gli tolse ogni lume di ragione. Dimenticando i compagni e la causa che li aveva condotti in quella casa, non pensò che a far sua la fanciulla vincendone la coraggiosa resistenza.
      Alle grida della infelice, che indarno il Conti cercava reprimere, accorsero il padre e un vecchio servo; ma nulla poterono fare in sua difesa, perché gli altri banditi li trattennero finché l’orribile misfatto fu consumato. Né basta: i cinque compagni del Conti vollero pur essi possedere la disgraziata giovinetta, che fu così ludibrio di tutti quanti sotto gli occhi del genitore.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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