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      Incominciava ad albeggiare, quando l’oscena masnada lasciò la preda: non c’era tempo da perdere: legarono il padre ed il domestico, e frugando alla lesta, poiché il tempo incalzava, non riuscirono a trovare che una trentina di scudi, coi quali fuggirono dal teatro delle loro turpi gesta.
      Francesco Conti tornò, come se nulla di nulla avesse fatto, al suo negozio, dove dietro denuncia del Fontana, fu sull’imbrunire arrestato.
      Sottoposto a processo tentò sulle prime di negare; ma la testimonianza dell’Elvira lo schiacciava e incominciò col confessare lo stupro della fanciulla, dicendo però di non aver fatto parte della banda, che abusò poi di lei e rubò i trenta scudi. E in questo proposito fu irremovibile. Tutti i tentativi per fargli declinare i nomi dei complici riuscirono frustranei.
      Fu nondimeno condannato alla forca, senza altro inasprimento di pena e io lo impiccai a Città di Castello, la mattina del 26 aprile 1803, dopo che fu ben confessato e confortato religiosamente, essendosi mostrato pentito del suo delitto. Morì coraggiosamente e la sua salma venne tosto distaccata dai parenti e portata al paese, ove le diedero onorata sepoltura.
      VI.
      La vendetta di un marito oltraggiato.
      Dopo i quattro di Camerino che avevano grassato e assassinato la principessa spagnuola il 9 febbraio 1801, compii la mia 28ma giustizia impiccando e squartando in piazza del Popolo Teodoro Cacciona, condannato per aver rubato a un carrettiere un ferraiuolo, un paio di stivali e dodici scudi. Cinque giorni dopo dovetti trasferirmi in Albano, dove il 14 febbraio 1801 ebbi a mazzolare e squartare un tal Fabio Valeri il quale aveva grassato il pizzicagnolo dell’Ariccia.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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