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      La settimana appresso, mi recai a Viterbo, dove il 21 febbraio 1801 dovetti impiccare e squartare Francesco Pretolani, il quale aveva grassato ed ucciso un oste e sua moglie. Dopo un riposo di quattro mesi, il 6 giugno 1801 ho impiccato, a piazza del Popolo a Roma, Giovanni Fabrini, il quale aveva commesso un omicidio per vendetta, alla Pace. Nessun particolare č degno di nota né per i delitti, né per le esecuzioni, di tutti costoro. Volgari malfattori, perendo per mia mano, ricevevano il giusto guiderdone delle loro opere malvagie, e se ne andavano all’altro mondo, persuasi essi medesimi di dover saldare il conto colla giustizia, senza troppo disperarsi e rassegnandosi al proprio destino. Tanto valeva per loro morir sul patibolo che in letto.
      Molto interessante ed eminentemente drammatico fu invece il processo di Domenico Treca, che, in seguito a sentenza del tribunale che lo condannava alla forca, fui chiamato ad impiccare in Subiaco, come di fatto lo impiccai la mattina del 4 luglio 1801.
      Domenico Treca era un giovinotto che si guadagnava la vita facendo il merciaio ambulante, girando per villaggi e frequentando i mercati e le fiere. Lucrava discretamente, e tutti i suoi denari li spendeva intorno alla moglie, che amava svisceratamente, e che ben meritava d’essere amata per l’incomparabile sua bellezza.
      Si chiamava costei Felicita ed era dotata di un personale molto appariscente: densa di forme, ma aggraziata, col petto torreggiante, le anche poderose, ben tornite e candide le braccia e pingui i lacerti.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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