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      Ma il contatto di quelle carni che egli avrebbe voluto coprir di baci, accendeva viemaggiormente la rabbia del tradito.
      Treca non era più un uomo, era una belva inferocita.
      Continuò a straziare quel corpo bellissimo coprendolo di ferite. Il sangue spillando con violenza gli aveva soffuso il viso e bagnate le labbra. Treca ne gustava il sapore e se ne ubbriacava.
      Il delirio omicida gli durò finché non cadde estenuato e privo di sensi al suolo.
      Rinvenuto dopo parecchio tempo, gli parve svegliarsi da un sogno: si alzò, si guardò attorno e tutta la tremenda verità gli apparve dinanzi agli occhi. Un senso di ribrezzo l’invase; volle fuggire, inciampò nel cadavere del curato e cadde; si rialzò, mosse alcun frettoloso passo ed inciampò ancora nel cadavere della parente. Si rialzò un’altra volta e barcollante giunse sulla via, sempre col pugnale stretto nella destra.
      Albeggiava e la luce smorta piovendogli sul volto contraffatto da convulsioni spasmodiche dei muscoli visuali, lo rendeva cadaverico. Pareva un colpito da mala morte, che uscisse dal sepolcro. Il sangue che gli grondava dai vestiti, cosparsi di grossi grumi, compiva il quadro scellerato.
      Alcune donne che lo videro prime in quello stato fuggirono gridando spaventate e facendosi il segno di croce; alcuni uomini che pur lo scorsero non ebbero il coraggio di accostarsegli e andarono in traccia dei birri, i quali giunsero di corsa e mentre lo ammanettavano e legavano solidamente, gli chiesero:
      - Che avete fatto?
      Quella fredda domanda parve ridargli la conoscenza dell’esser suo.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Treca