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      Aveva voluto farla rinvenire e guarirla. La vista di tanta bellezza l’aveva reso dissennato. Se non otteneva il suo perdono sarebbe morto dannato. Tutto quel tanto di vita che gli rimaneva, non sarebbe bastato, pur infliggendosi patimenti d’ogni genere, ad espiare.
      La fanciulla rialzata, ricoperta co’ suoi vestiti, man mano si rinfrancò e, ingenua com’era, credette alla mendace parola dell’astuto eremita, il quale spinse l’ipocrisia fino a farla inginocchiare al suo fianco sulla stuoia, dell’altro compartimento, innanzi al crocifisso e a dichiarare che gli perdonava di cuore il suo trasporto.
      Ricuperata la fiducia, la fanciulla non esitò a confessare il motivo che l’aveva guidata colà. Aveva un amante che la doveva sposare. Era partito da parecchio e ancora non le aveva dato nuova di lui. Desiderava di sapere che cosa era accaduto; se il suo Felicino le volesse sempre bene, se sarebbe tornato, se l’avrebbe sposata per davvero. Le avevano detto che quivi si trovava un eremita, un sant’uomo che avrebbe potuto farle conoscere tutto ciò, ed aiutarla, pure, a conseguire ciò che ardentemente bramava. Perciò era venuta.
      Ma mentre scendeva dalla china una voce le diceva di non farlo: aveva voluto tornare sopra i suoi passi, era caduta e da quel momento non sapeva più nulla.
      Fra Pasquale la confortò. Finse di consultare certi vecchi libri che teneva nel laboratorio; poi trasse una boccia, la riempì d’acqua e lasciandovi cadere goccia a goccia da una fialetta un liquore verdastro che formava delle spire opaline e si scioglieva lentamente, le palesò ciò che diceva aver tratto da’ suoi esperimenti.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Felicino Pasquale