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      Questo fu un raggio di luce per l’inquirente.
      Tornato al proprio ufficio e chiuso nella solitudine del suo gabinetto, con lunga e profonda meditazione riuscì a ricomporre la trama del delitto.
      XVI.
      La confessione e la morte.
      A notte alta si fa condurre innanzi Domenico Guidi e, rimasto solo con lui, così l’abborda:
      - Ho una notizia a darvi: Pepita la vostra amante è stata riconosciuta gestante.
      La lampada posta sullo scrittoio dell’inquirente proiettava sopra di lui la luce; il giudice invece, coperto da un paralume di seta verde, restava all’ombra e studiava attentamente sul volto dell’imputato l’effetto delle sue parole. A quell’uscita il colore del Guidi s’era fatto cadaverico.
      - Persisterete a negare - riprese il giudice collo stesso tono di voce aspro e secco - d’aver ucciso il fratello della vostra ragazza?
      Guidi non rispose.
      - Ben più consigliata di voi, Pepita ha confessato tutta la verità, nulla occultando alla giustizia, né della vostra tresca, né del progetto di matrimonio, concepito da suo padre e comunicatole dalla madre e da lei respinto, né delle conseguenze che ne scaturirono.
      L’imputato pareva fulminato: le sue forze morali erano paralizzate e le fisiche del pari. Credeva tutto scoperto e si sentiva morire.
      - Domenico Guidi - continuò il giudice, dando alla sua voce un’inflessione meno severa e parlandogli in modo quasi paterno - la sincerità solo può migliorare la vostra sorte, attenuare la gravità del delitto.
      L’imputato cadde nel laccio e, sperando di sfuggire al patibolo, del quale gli pareva rizzarsi l’immagine innanzi a lui, balbettò:


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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