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      - Fu per legittima difesa.
      - Lo so. Foste sorpreso...
      - E replicatamente colpito. Se non erano i due involti di Pepita nei quali si affondò la lama del suo coltello l’ucciso sarei stato io.
      Quella rivelazione dei due involti aprì la mente del giudice. Li aveva dati all’amante Pepita. Che cosa potevano contenere? Certamente i suoi effetti. A quale scopo? Per portarli con sé. Era dunque a una fuga che si erano preparati. L’assassinato aveva colpito il Guidi? La sorpresa risultava evidente.
      - Dove intendevate di portar Pepita, dopo la fuga? - domandò il giudice a bruciapelo.
      - Non lo so. La cosa era stata così improvvisa, che non avevo avuto tempo di pensare a nulla. Si voleva andar via da Viterbo. Saremmo usciti di città per andar poi lontano.
      - Col fardello della roba che Pepita portava con sé, non è vero?
      - Io non possedevo mezzi. Fu lei che lo volle. Mi disse che avrebbe portato con sé la sua roba. Null’altro che la sua roba.
      L’idea di esser ritenuto complice di un furto domestico, per parte della ragazza, ripugnava al Guidi più dello stesso delitto di sangue che aveva commesso.
      Man mano, l’abilissimo inquirente, sempre fingendosi già informato di tutto, dalle supposte rivelazioni di Pepita, trasse di bocca al prigioniero tutti i più minuti particolari del fatto, dall’inizio delle sue relazioni colla fanciulla, fino alla sua fuga disperata, dopo aver assassinato il fratello. Emerse così chiaro che questi aveva avuto cognizione della tresca della sorella e che la vigilava, per modo, che non potesse andar a monte il progettato di lei matrimonio.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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