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      Ottenuto un così grande, quanto insperato successo, l’inquirente licenziò il Guidi, esortandolo a confermare al domani innanzi al consesso giudicante, le sue confessioni e facendogli intravedere la possibilità di una mite condanna e della grazia fors’anco.
      Il giorno seguente il reo ripetè la sua confessione ampia: quindi fu fatto ricondurre in carcere. Il tribunale, per evitare uno scandalo, trattandosi di una fanciulla chiusa in un chiostro, sorvolò nella motivazione della sentenza ai fatti antecedenti e condannò il Guidi alla forca per omicidio.
      E la condanna ebbe subito corso, come avvertii.
      Quando Guidi, giunse ai piedi del patibolo, era più morto che vivo. L’intimazione della sentenza lo aveva siffattamente colpito, mentre era così lontano dall’aspettarla, che non proferì più verbo. Aveva perduta la favella.
      Dovetti portarlo su di viva forza per la scala, mentre il mio aiutante lo sorreggeva per le gambe.
      XVII.
      Violazione di una promessa sposa.
      Il 30 marzo del 1805 dovetti recarmi a Fermo, l’antica capitale delle Marche, per impiccarvi un giovane di buona famiglia che aveva commesso un assassinio ed uno stupro: l’assassinio in persona del padre dell’ex sua promessa sposa, lo stupro in persona di lei medesima. Luigi Masi era il suo nome.
      Di carattere estremamente violento, si era innamorato di Elvira Placenti, figlia di un merciaio che teneva negozio in piazza di Fermo, e dopo averla per parecchio tempo corteggiata le chiese in isposa al padre, il quale acconsentì, a patto che prima del matrimonio si procurasse una posizione stabile.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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