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      Compiuta l’orribile vendetta, Giuseppe Romiti, scese dall’albero. Passava in quel momento suo fratello che recavasi al lavoro; egli lo chiamò e gli offrì la vista di quel tremendo spettacolo.
      Poche ore dopo si consegnava da se stesso al bargello di Narni. Eretto il processo fu condannato all’impiccagione per «barbaro omicidio», ed io la eseguii. Morì impenitente, coraggiosamente e soddisfatto dell’opera propria.
      XXX.
      Un assassinio di notte.
      Dopo mesi di riposo, il 17 febbraio 1816 ebbi una doppia esecuzione a fare in piazza del Popolo, ma i delinquenti non avevano alcun rapporto fra loro, e senza alcuna relazione erano i reati pei quali subivano l’estremo supplizio.
      Il primo fu Francesco Perelli romano, un giovane operaio condannato, per omicidio premeditato, alla forca semplice.
      Era stato trovato dai gendarmi in via Florida, di notte vicino al portone di un palazzo dove era stato commesso un assassinio in persona di un cittadino. Aveva ancora in mano uno stilletto affilatissimo con breve impugnatura di ferro, intriso di sangue, e pur di sangue erano inzuppati i suoi abiti. Non oppose resistenza di sorta all’arresto. Condotto innanzi al bargello non seppe o non volle dir nulla. Pareva inebetito. Era orrore del misfatto commesso? Era timore delle conseguenze penali che lo aspettavano? Era una prostrazione d’animo cagionatagli dalla passione che gli aveva armata la mano? Nessuno avrebbe arrischiato di affermarlo sopra coscenza.
      L’ucciso era un giovane di belle sembianze, vestito signorilmente, ed appartenente a nobile e ricca famiglia.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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