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      Col laccio al collo gridava ancora, fu proprio la corda che gli strozzò la parola in bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi nero. Aveva gli occhi fuori dell’orbita, i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando incominciai a spaccarlo, mi pareva che le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro calore naturale. La giornata era rigida; soffiava la tramontana e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte bollenti da una pentola. Al contatto dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani, me le rendeva scivolose. Prima di tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele. Questo, commisto al sangue ed al grasso formava una spuma rossastra, che sarebbe bastata per far la barba a un reggimento di soldati.
      Anche i quarti attaccati alle braccia del patibolo fumarono per parecchio tempo. Non mi era mai accaduto di vedere un fenomeno simile. Dovetti bruciare le travi della forca, perché non sarebbero state più servibili, e ardendo esalavano un puzzo orribile, che uscendo dalla porta di casa mia si diffuse per borgo SantAngelo, con non lieve incomodo per gli inquilini i quali mi domandarono se per avventura avevo fatto cuocere delle salsiccie d’impiccati.
      XXXVI.
      L’osteria di campagna - I due cacciatori.
      Carlo Castri era un vinaio che aveva una piccola osteria di cucina in campagna ai Monti Parioli poco sotto Ponte Molle. Quando era buon tempo, di primavera, d’estate e d’autunno la gente che veniva dalla città la frequentava, e guadagnava discretamente.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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