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      Picchiava ferocemente colla zappa sulle teste dei due sepolti e non perveniva a farle scomparire. La luna ritornava ad illuminarle e a lui pareva sogghignassero.
      Si alzò, raccolse gli indumenti loro e si mise a fuggire. Ma fatti pochi passi cadde in preda ad un deliquio.
      Sull’albeggiare due contadini trovarono i cadaveri sepolti, coi capi che uscivano dal suolo e corsero a darne avviso, benché sgomenti, ai birri che incontrarono sulla via Flaminia. Questi rinfrancatili, si fecero condurre sul posto e rovistando intorno trovarono l’oste tutt’ora svenuto, col corpo del delitto, cioè la roba rubata fra le braccia.
      Dovettero levarselo sulle braccia e trasportarlo all’Arco Oscuro, dove depostolo sopra un carretto, fortemente e solidamente legato, lo fecero trasportare alle carceri di Roma, seguito da un di loro. Gli altri operarono il diseppellimento dei due cacciatori.
      Carlo Castri sempre in preda al delirio febbrile stette parecchi giorni fra morte e vita, ma le premurose cure dei carcerieri e dei medici addetti alle carceri lo salvarono e si poté istruire il processo a suo carico. Schiacciato dalle prove del suo delitto, non tentò di negare, confessò la grassazione dei due cacciatori, ed altre ancora, esortato dai giudici, i quali per istrappargli i segreti sino allora da lui così accortamente custoditi, gli facevano balenare la probabilità della grazia, in premio della sua sincerità. E ad ogni nuova confessione il suo trattamento carcerario migliorava.
      Ma quando Carlo Castri, credette ormai di aver salvata la pelle, fu pronunziata la sentenza che lo condannava alla forca ed allo squartamento.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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