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      D’un tratto Giacinta si svegliò, si portò la mano al petto, come volesse farsi schermo, e aperti gli occhi riconobbe Saverio, che si protendeva sopra di lei col coltello tutt’ora imbrandito.
      - Ah! Non è un sogno dunque? - esclamò e aggiunse con accento di amarezza e di disprezzo insieme: assassino!
      Quell’insulto fu la sua sentenza di morte. Se non l’avesse pronunziato, forse Saverio le sarebbe caduto ai piedi, le avrebbe chiesto perdono, l’avrebbe baciata, abbracciata, amata come un tempo; si sarebbe inebbriato delle sue carezze; i suoi amplessi gli avrebbero fatto dimenticare quelli della contessa, fors’anco glieli avrebbero resi odiosi.
      Quell’insulto gli fece salire il sangue al cervello, vide una nebbia rossa innanzi agli occhi e sentì uno zampillo di sangue rosso che gli bagnò la mano e il volto.
      La sua destra, quasi inconsciamente, aveva trapassato coll’affilato coltello il cuore della povera donna.
      Giacinta non proferì un verbo. Volse al marito uno sguardo pieno d’amore e di perdono e spirò.
      Saverio fu preso dalle vertigini del terrore. Voleva fuggire e si sentiva come incatenato al letto. Un braccio del cadavere irrigidito era steso verso di lui ed egli si sentiva come afferrato da quel braccio: fece atto di svincolarsi e lo piegò verso il petto della morta, ma il braccio con moto anastaltico si protese nuovamente verso di lui.
      XLV.
      Il processo - La condanna.
      Finalmente, con uno sforzo estremo gettò il coltello, che teneva ancora imbrandito e pervenne a togliersi di là. Uscì senza chiudere la porta dietro di sé; scese a precipizio le scale e giunto sulla strada si mise a correre come un disperato.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Giacinta Saverio Saverio